La statua della Vergine

Ricettacolo di perversioni oscure è la storia che mi accingo a narrarvi.
Logorato dal delirio di una passione impossibile amai e strinsi tra le braccia la donna che voi venerate come dea.
Quanto peccaminose e lerce sono ora le mie braccia tatuate della sua immagine opaca a vergare la vergognosa empietà della mia colpa, del mio orrido delitto: quello di sapere.
Camminavo, una sera malinconico lungo una strada desolata, pesanti si susseguivano i miei passi in cerca di solitudine, lontano dall’amore, perfido e maligno.
Nella cupa notte che aleggiava smaniosa ed elegante tutt’intorno a carezzar i mattoni e gli strettissimi vicoli, io, pallido di delirio e insonnia febbrile m’arrestai d’innanzi un tabernacolo, all’interno di esso la vergine Maria mi fissava a grandezza naturale, con le mani giunte e gli occhi eterni.
Fui mestamente colpito da quel perlaceo volto, rimasi stregato di morboso incanto da quella statua che era di foggia comune, simile a tantissime altre.
Nel mio fissarla lungamente fui però scosso da un indicibile inquietudine, quale orrore s’ergeva nella notte a tormentarmi di cupe visioni? Le labbra della statua erano mutate in un malizioso sorriso, le sue vesti, prima di pietra, ora ondulavano al vento con soave armonia che però rivelava il biancore mirabile di dolci forme intraviste.
La vergine si mosse, e io indietreggiai.
La luna illuminava entrambi, tutt’intorno piccole vite che vita non erano, spettri striscianti, fantasmagorie remote a osservare, insetti soprofagi anche di tanto in tanto a spiare celati dalle grondaie mentre stuprano gli acari e ne fecondano le spoglie defunte.
Ammaliato dalla superba bellezza della donna che avevo innanzi, osai andarle incontro. Poco dopo caddi nel suo morbido abbraccio, un abbraccio soffice ed estatico che aveva il sapore di stella e dolore.
Ella rideva maliziosamente, e io sentivo la pienezza di quelle carni sotto la mia mano terrena e callosa, non più freddo marmo, bensì carne calda e sensuale, liscia, palpitante disio ineluttabile.
Entrambi cademmo nell’umida erba d’una desolata campagna che affiancava la tetra stradina.
Sereno, m’abbandonai in un sonnecchiare sui suoi seni velati di bianco tessuto orientale.
Presto i suoi sospiri divennero affanno, si liberò del mio abbraccio per allargare le labbra in un carnale bacio dal sapore di sangue. In quell’istante le mie mani afferrarono l’opulenza traboccante dei suoi seni, seni di donna non più gravida da poco, seni apparsi bianchi e luminosi nella tenebra quando li liberai dai veli che soffusi vi si posavano, sfavillanti seni che abbagliarono la mia delittuosa vista di mortale peccatore.
Mi strinse a sè mediante le sue gambe perfette, nuda completamente, nel suo inumano nitore giunonico ondeggiava in una folle danza onusta di lussuria. Il di lei volto era intriso in ogni lineamento di soddisfazione lubrica e sfrenata mentre io mi concedevo interamente a lei.
Sorrise e affondò le unghie nella carne della mia schiena sudata, ma non vi badai, non vi fu parte del suo corpo che non consumai di baci nonostante il suo supplizio divenisse sempre più selvatico.
Compiuto l’amplesso blasfemo ella s’alzò e con nudo, felpato passo s’incamminò per la campagna ritornando alla stradina.
Io la rincorsi e lei rideva di me, scorgevo le sue natiche di lontano, non potevo non perpetrare al massimo estremo l’oscenità del mio peccato rapendo quelle forme fin che avessi avuto vita.
Ma quando tornai al tabernacolo ella era di nuovo pietra, statua immacolata e innocente.

 

Ogni notte passai per quella via, mai ella tornò di carne e sangue.
Sacrificai ad essa anime innocenti come imposizione e ricatto affinché ella tornasse, cosparsi la statua di sangue di neonato, ma ignorava il mio folle richiamo maledetto.
Mi circondai delle sacre sue immagini, non per fede, no, bensì per amore. Ma una notte ella tornò finalmente.
A causa dei miei macabri riti la statua fu trasferita al cimitero ove nessuno sarebbe entrato a ora tarda. Io invece dormivo ai piedi della statua ogni notte vegliando con ossessione, vagando per il cimitero con il cuore a pezzi come uno spettro languente, rifugiandomi tra le lapidi che portavano incise preghiere innalzate alla mia amante perduta.
Ella ridivenne carne, da gelida che era, era una notte d’estate, stupenda, partorita da Iside.
Discese lentamente il piedistallo, e subito, in un lene fruscio si liberò dei suoi vestimenti liberando l’estasi del suo corpo ondeggiante.
Mi spinse con forza all’indietro, caddi disteso sull’erba del cimitero che portava l’estasi euritmica dei morti nel suo tocco, poi ella salì su di me dando nuovamente inizio ad una smaniosa danza voluttuosa. Graffiava il mio petto senza ritegno, gemeva impazzita rendendomi vittima e nient’altro, ma io godevo orribilmente, godevo come mai avrei potuto, travolto dalla carnalità divina di lei che si abbatteva su di me inesorabile come un ascia su di un cranio.
Sollazzatasi come una puttana sontuosa e sudata, dai seni imperlati di lussuria indecente ella mi parlò:
“Smettila di evocare la mia presenza, sei stato il mio casuale sollazzo di una notte, sono tornata per pena e sappi che non lo farò più. Ho bisogno di variare i miei amanti e le mie fantasie, un crescendo di perversione è la mia eternità.
Nulla farà sì che io possa tornare, nè le tue lacrime, nè le tue preghiere, nè tanto meno il patetico sangue dei tuoi figli. Sei solo l’ignara vittima della vergine eterna, non sei il solo, non sei il primo nè sarai l’ultimo, vile insulso pidocchio.”
Tornò sul piedistallo e ridivenne immobile pietra.
Ero stato vittima della puttana di Dio carnefice del divino tribunale del tradimento. Furioso distrussi la statua maligna, la frantumai al suolo con in corpo la collera bellicosa d’un omicida.
Mi voltai disperato verso la statua di Gesù Cristo che era di fronte a quella distrutta di sua madre.
Egli scese dal piedistallo ed era di carne e ossa, si liberò della tunica, e nudo avanzò verso di me...

Davide Giannicolo