Giochi di vento

Una giornata ai primi di aprile a passeggio con un amico d’infanzia.
Il vento gioca nell’erba e fra i capelli. L’aria è dolce e si beve come un vino.
Nei boschetti con la loro accoglienza umida e frusciante si perdono i nostri passi. Per il sentiero incontriamo il vecchio Ector ottantenne che sta avanzando in bicicletta.
“Oh, caro Ector, sono felice di rivedervi...”
“Non ho tempo, non ho tempo” prosegue il vecchietto con gesti della mano. “Le viti, devo finire di potare...”
Il vento stormisce e ci porta frescura, profumi di foglie nuove, di stagni dove l’acqua si increspa in ondine.
Di passaggio diamo un’occhiata alla fornace abbandonata. É tutto deserto: nei camminamenti, dentro le gallerie di cottura e nei fumaioli, il vento ha un sibilo modulato e incessante mentre solleva una polvere scura.
La casetta con i glicini è chiusa. I muri sono abbaglianti e poi cupi al passare delle grosse nubi davanti al sole. Nubi isolate e immense che corrono nel cielo.
Il mio amico dice qualcosa guardandole, ma le sue parole fuggono nel vento.
Passando dalla casa del fabbro entriamo dal portone, con un cenno d’intesa. Il cortile è ingombro di ferraglia, da dove fuoriescono rivoletti rossi di ruggine. Echi di rumori lontani.
“Ehi, Septimus, una parola sola e poi ce ne andiamo.”
Si odono colpi di martello al primo piano di una baracca e sbraitare di voci. Finalmente la finestra si spalanca e va a sbattere contro il muro. Escono riverberi e la testa del fabbro sopra il grembiule di cuoio:
“Non ora! No, adesso non ho tempo! Un altro giorno, passate un altro giorno...”

Proseguiamo per il sentiero dei campi dove le margherite occhieggiano bianche tra i fiori gialli dei soffioni. Lungo il fiume dove l’acqua ha brividi vanno a cadere come neve i petali del vicino frutteto.
I meli sono innevati di fiori e la lana bianca dei soffioni si stende sotto di loro. Petali bianchi galleggiano sull’acqua del fiume, rotolano fra l’erba trasportati dalle folate del vento.
Inoltrandoci ancor di più nei campi arriviamo alla casa del pastore dove formiche grosse e nere corrono su per i muri.
Il sentiero ha una curva che toglie la visuale e poi la prossima casa appare.
Il vento non si sente più. Lo sentiamo ululare adesso dietro la casa che fa da riparo.
É abbandonata, probabilmente, una delle tante che si incontrano nella campagna. Da chi era abitata? Non eravamo mai arrivati fin qui prima d’ora.
Nel cortile soleggiato il tempo sembra essersi fermato. Solo le nubi bianche si muovono nel cielo.
Restiamo in silenzio a guardare la pietra all’angolo, le finestre semichiuse, i vasi di fiori allineati lungo i muri.
“Forse ci abita qualcuno.”
Stiamo per andarcene quando un gatto color arancio ci corre incontro. É uscito da sotto una tavola marcita del portone e adesso ci segue.
Proviamo a prenderlo ma senza riuscirci. Il vento oltre l’angolo riprende a investirci disperdendo perfino i nostri pensieri.
Alla prossima svolta, poiché il gatto ci segue, decidiamo di tornare indietro per riportarlo al suo posto.
Davanti alla casa ci prende ancora la stessa sensazione di prima, ma con maggior forza. É accaduto qualcosa. Il tempo qui si è fermato.
Ci avviciniamo di più, ma le finestre semichiuse, i vetri sporchi non lasciano intravedere niente.
“Forse qui abita una vecchia...” dice il mio amico guardando su una targhetta sbiadita. Prova a toccare la porta sotto la vite, ed è solo accostata.
“É permesso? Possiamo entrare?”
Silenzio. Il gatto si accarezza e fa le fusa sulle nostre gambe.
É abbandonata, penso, entrando. E sono accolto da una sensazione di buio e umidità sgradevole.
Poi vedo un attaccapanni, una sedia. No, forse ci abita qualcuno e chiamo di nuovo. Restiamo in attesa ad ascoltare l’ululato e i mille scricchiolii del vento all’esterno della casa.
C’è una strana quiete qui dentro. C’è troppa quiete e nessun segno di vita.
Il gatto si è infilato in una porta e lo seguiamo.
Una cucina piccola, con una tavola di marmo e due finestre dalle quali entra la luce di fuori.
“Se ne sono andati lasciando qui quello che non serviva più. Saliamo di sopra.”
Una scala strettissima e poi un profumo di cose care che non so definire.
“Ma c’è qualcuno qui!” esclama l’amico davanti a me e si gira per tornare indietro, ma anch’io voglio vedere. Mi lascia passare e si ferma completando la frase: “O almeno c’è stato.”
Una stanzetta da letto. Tutto è intimo, profumato, raccolto. Dei vestiti da donna appesi a un gancio, vestiti frivoli e colorati.
Il profumo è intenso qui, impregna la stanza come una presenza. Dei capelli biondi su un lungo pettine nero posato su una mensola. Uno specchio ovale, un portaspilli sul cassettone.
E ninnoli, cagnolini di stoffa o di vetro, suppellettili come giocattoli distraggono l’attenzione intorno. Tende soffici come veli, un vestito bianco buttato sul letto disfatto.
“Andiamo via...”
Ma non ci sono altre porte. Il resto dei piani superiori della casa è occupato dal fienile.
“Andiamo via, può tornare da un momento all’altro.”
Chi? Sì, ce ne andiamo e non riusciremo a incontrarla.
É una giornata di aprile e forse lei si è persa nel vento.

Sergio Bissoli