Oggi
Il treno arriva puntuale in stazione come sempre. Da quel giorno non ho più sbagliato
fermata, anche se spesso desidero farlo, ma non servirebbe a nulla.
Pochi pendolari stanchi come me scendono sotto sul marciapiede del binario tre di questo
piccolo avamposto della città, a diciotto chilometri dal centro e a mille da tutto ciò
che sognavo quandero ragazzo.
Facce stanche mi passano a fianco, alcuni accendono sigarette, altre raggiungono il
parcheggio a passo svelto, lettori MP3 nelle orecchie e ombrelli aperti nella pioggia di
questanonima sera di primavera.
Mi guardo intorno, pur sapendo che non vedrò ciò che spero. Nemmeno oggi, né mai più.
Sono passati già ventanni da quella notte.
Aprile 1987
Mi ero addormentato sul treno e sbagliai stazione. Non un errore irrimediabile, ero sceso
solo due fermate dopo la mia. Lorologio segnava le undici e dieci di notte, ciò
significava che avevo un solo treno da poter prendere per tornare indietro, quello di
mezzanotte. Se lavessi perso avrei dovuto aspettare quello delle sei del mattino,
oppure farmela a piedi.
Al diavolo alla mia solita sfortuna, pensai. I miei se ne vanno sette
giorni a Capri per lanniversario di nozze, io faccio la cazzata di passare da Luca e
Antonella a Milano, rischiando quasi di perdermi per i campi al ritorno.
Conoscevo quel paese, piccolo e sonnacchioso borgo dellhinterland, una mezza dozzina
di tossici come unico problema, lInter Club locale come sola organizzazione degna di
qualche nota.
Mi guardai intorno. Sui quattro binari cerano poche panchine e cinque persone,
distribuite tutti sulla banchina dattesa del treno che portava a Milano. Quello che
avrei dovuto prendere io per tornare alla mia fermata.
Due erano impiegati, lo si capiva dalle giacche quasi identiche e dalle ventiquattrore di
cuoio. Pur non conversando erano luno vicino allaltro, anonimi.
Un terzo sonnecchiava scompostamente su una panchina, vestito con un bomber sdrucito e dei
jeans sporchi. Avrà avuto poco più della mia età, forse ventuno, ventidue anni, ma è
così pallido e tirato che doveva essere uno che si bucava.
Il quarto era un punk dallaria sfatta, fuori luogo come una macchia nera su un abito
da sposa.
Lultima persona era piazzata sotto lunico lampione spento; dalla figura
sottile e dai capelli lunghi sintuiva che fosse una donna.
Mi avvicinai a lei, sia per curiosità che per la mancanza dattrattiva degli altri
miei compagni dattesa. Appena la vidi ne rimasi colpito. Era una ragazza, e che
ragazza. Alta, snella come una di quelle modelle di Via Montenapoleone, possedeva un
fascino meno snob: vestita con un giubbino in pelle senza maniche, camicia e pantaloni di
jeans, se ne stava appoggiata al lampione, immobile. Studiai il suo viso affilato, naso
leggermente allinsù, grandi occhi neri, labbra sottili ma perfette. Il tutto
incorniciato da lunghi capelli ramati e mossi.
- Ti piace quello che vedi?
Arrossii fino ai capelli: credevo che non stesse guardando nella mia direzione. La vidi
sorridere con un certo sarcasmo.
- Scusami, credevo... volessi compagnia. - Una risposta stupida, a dire il vero, ma mi
venne spontaneamente. Io che solitamente cominciavo a farfugliare al solo approccio con
una ragazza. Ogni volta che capitava maledivo la buona educazione che mi
avevano dato i miei e, già che cero, anche la tranquilla vita da ragazzo della
periferia sonnolenta, cattolica e borghese.
- Compagnia? Effettivamente non smetto mai di cercarla. Avvicinati, dai.
Lo feci, incredulo. Non è che mi capitasse così spesso di ricevere inviti così.
- Vai anche tu a Milano?
Lei mi guardò. - No. Aspetto qualcuno.
- Chi?
Scrollò le spalle, un gesto che aveva qualcosa di sensuale. - Come ti chiami?
- Giulio.
- Come Andreotti - scherzò. Risi, ma evitai di dirle che mio padre mi aveva chiamato
così proprio per omaggiare quello che ai suoi tempi era lastro nascente della
politica italiana. Mio padre: casa, chiesa, lavoro.
- E tu, come ti chiami?
- Sarai, proprio come la moglie di Abramo.
Non avevo idea che Abramo avesse una moglie chiamata così, ma ritenni opportuno non
sfoggiare la mia ignoranza. Mi avvicinai ulteriormente a Sarai, ammirando la sua bellezza
magnetica. Non so perché, ma mi venne da definirla notturna, un fascino che
non necessitava di luce.
- Cosa ci fai tu in stazione a questora? - me lo chiese sedendosi con la schiena
appoggiata al lampione. La imitai, sperando di fare la cosa giusta.
- Tornavo da Milano ma ho sbagliato stazione... mi sono addormentato. - Era una
dichiarazione esplicita didiozia, ma Sarai sembrò apprezzare. Sorrise divertita
senza prendermi in giro. - Sai, sono andato a trovare due amici, compagni
duniversità. Abbiamo mangiato una pizza, una cosa tranquilla. - E
maledettamente noiosa, pensai, stupendomi del fatto che me ne accorgessi solo ora.
- Hai lasciato la città nel suo momento più bello. La notte... passeggiare tra le luci
dei locali, in strade che mostrano il loro lato segreto, quello che di giorno nascondono.
Perché non ti sei fermato dal tuo amico?
Rabbrividii. Luca mi aveva proposto di fare tardi con lui, andare a ballare in un posto
che conosceva e poi dormire a casa sua. Avevo rifiutato. Se mia madre avesse chiamato a
casa? Se lei e papà fossero tornati allimprovviso, per qualche ragione? Ma come
faceva Sarai a sapere dellinvito di Luca?
- Io... non potevo fermarmi. Sai, i miei non sono così liberali, nonostante sia
maggiorenne. - Cercai di ostentare complicità, ancora perplesso dalla domanda della
ragazza.
- Sempre rispettoso, sempre obbediente. Studi legge, vero? Come vuole tuo padre. E torni
presto la sera. Non fumi, non frequenti brutte compagnie. Come se ce ne fossero di belle.
Impallidii. Sarai mi conosceva bene, ma io non lavevo mai vista. Era forse la figlia
di qualche amica di mamma? Impossibile. Lavrei sicuramente già notata. Eppure non
le chiesi come mai sapeva tutto ciò, bensì trovai necessario giustificarmi. - Sono stato
cresciuto così. I miei vogliono solo il mio bene, anche se sono un po
allantica... un giorno probabilmente li ringrazierò, per essere stati così
presenti. - Le parole di mio padre, pensai.
- Un giorno... e adesso? Sei felice?
Lassurdità di quella conversazione era in crescendo, tuttavia Sarai aveva un modo
di fare che invitava alla confidenza, nonostante la sua strana telepatia, che pensai
essere figlia di una serie dintuizioni. Del resto, sembravo proprio ciò che ero: il
bravo ragazzo di paese, quello che non si lamentava mai, che non deludeva mai. Non so
come, ma ebbi la netta certezza che Sarai fosse il mio esatto opposto.
- Felice? - Me lo domandavo spesso. - E tu? Sei felice? - sviai.
- Io sono libera, niente mi vincola, né persone né luoghi. - Nonostante la risposta,
percepii una profonda tristezza nella voce di quella ragazza. Quasi non mi accorsi che la
stazione, attorno a me, sembrava più sfocata, come se ci fossimo allontanati,
anche se in realtà non ceravamo mai mossi da quel lampione spento.
Avrei voluto chiedere mille cose a Sarai ma il tempo a disposizione prima dellarrivo
del treno non era poi tanto. Quellincontro era troppo strano per ritenerlo casuale.
Non ero mai stato un razionalista, perciò mille ipotesi su chi fosse realmente quella
ragazza si affacciarono nella parte più fantasiosa del mio cervello. Avevo un po
paura, ma niente al mondo mi avrebbe fatto andar via prima del tempo.
Feci per parlare, ma Sarai mi precedette. - Me lo daresti un bacio?
Sentii una vertigine. Un bacio? Antonella, la ragazza che mattraeva, mi aveva fatto
penare per mesi solo per concedere una cena, conclusasi con un casto abbraccio. Annuii,
senza parlare e Sarai si chinò su di me, baciandomi.
Fu una sensazione meravigliosa. Le sue labbra erano calde e la sua lingua delicata,
cercando la mia. Mi eccitai, vergognandomi allidea che lei potesse accorgersene ma,
prima che riuscissi a scostarmi, nella mia mente esplosero una moltitudine dimmagini
e parole.
Vidi Sarai nuda, perfetta in ogni dettaglio, bellissima. Attraversava un mondo fatto di
fuoco, come una città ardente, risalendo poi una voragine infinita, accompagnata da altre
sagome appena invisibili nel buio di quel baratro. Eccola sbucare in un prato notturno
bagnato di rugiada, che aderì al suo corpo nudo. Gli altri non si vedevano più
ma ne percepivo la presenza in lontananza. Le immagini scorsero più veloci mentre una
parte remota dei miei sensi mi diceva che il bacio non si era interrotto.
In fotogrammi sempre più repentini vidi Sarai vestita come unantica sacerdotessa,
poi come una sorta damazzone, quindi da cortigiana, da cantante di un night, infine
con una tuta da motociclista a cavallo di una potente Kawasaki.
Insieme a quelle immagini il mio cervello recepì una cacofonia di voci, maschili e
femminili, che sussurravano e urlavano al contempo parole quasi completamente
incomprensibili: Nephilim! Dokkalfar! Lan awn shee! Empusa! E molte altre ancora.
Quando Sarai si staccò da me tutto scomparve, voci e immagini, lasciandomi stordito. La
ragazza teneva le sue dita sulle mie guance, fissandomi negli occhi.
- Chi sei? - chiesi con un filo di voce.
- Vieni con me e sarò tua. - Parlò con voce suadente, ma notai una luce supplichevole
nei suoi bellissimi occhi. - Ho avuto molti amanti, ma tutti mi hanno usato tanto quanto
io ho usato loro. Tu forse sarai diverso... hai onore e altruismo, ma non sei padrone
della tua vita. - Mi lasciò il viso, sfiorando le mie labbra con un dito. - Siamo singole
metà, ciascuno di noi può imparare dallaltro. Vieni con me.
- Dove? - riuscii a sussurrare, perso in lei. Il mondo attorno a me sembrava nebbioso,
irreale.
Scrollò le spalle. - Che importa. Ho molte case un po ovunque. Sarai tu a decidere.
Lascia la tua vecchia vita.
Ci pensai: la fuga con Sarai, qualunque cosa fosse, labbandono di genitori,
amici, casa. La tentazione di dire sì era forte, quasi dolorosa, ma la parte razionale
che in me ancora funzionava respingeva lidea della fuga tanto quanto il mio
subconscio lanelava. Avevo passato la vita ad accumulare stupide ma rassicuranti
certezze, tanto che il mio futuro sembrava mille e mille volte scritto: un buon lavoro,
una famiglia su cui contare, una moglie dolce e tranquilla.
La sirena del treno in arrivo sciolse in parte quellincantesimo che mi avvolgeva. Mi
scossi, mentre la stazione riprendeva solidità. Tuttavia Sarai era ancora lì,
guardandomi con occhi che bruciavano dattesa. Per un attimo ebbi la certezza che, se
lo voleva, avrebbe potuto ordinarmi di essere per sempre suo.
Non osai parlare e il treno arrivò, fermandosi sul binario con uno stridio fastidioso. Mi
alzai a fatica; Sarai fece lo stesso.
- Io... devo andare.
- Se prenderai quel treno, non mi rivedrai più.
Scoprii che lidea era dolorosa. - Ho bisogno di tempo per pensare...
Scosse la testa. - Non ne avrai. - Sembrava triste, ma anche ferita. La sua delusione
sembrava quasi emanare calore, come una radiazione.
- Mi dispiace - farfugliai, salendo sul treno, dove un gruppetto di ragazzini ascoltavano
Faith di George Michael da unenorme radio a tutto volume.
Mi lasciai cadere sul primo di tanti sedili liberi, guardando fuori in cerca di Sarai. La
ragazza già non si vedeva più, scomparsa come un sogno allalba. Il lampione sotto
il quale ceravamo seduti ora illuminava la banchina esattamente come gli altri.
Oggi
Solo qualche anno fa mi parve dintravederla di sfuggita tra un vagone e laltro
della metropolitana. Corsi al vetro divisorio ma, affacciandomi, non la trovai più. Forse
non era nemmeno lei, bensì la mia mente che sperava di rivederla.
Salgo in auto, a casa ho una moglie che mi aspetta in grembiule davanti alla TV, e un
figlio che vive più su internet che non con noi.
Oggi ricordo Sarai più che altri giorni, tanto che una lacrima mi bagna il bavero della
giacca. Cosa ne sarebbe stato della mia vita con lei? Qualunque creatura fosse, rimpiango
ancora la sua offerta damore.
Ogni tanto passo per la stazione in cui la incontrai, anelando inutilmente di trovarla
ancora lì. Il lampione cè ancora, e non sè mai più guastato.
Certe scelte si pagano caro; oramai so che dovrò convivere con la consapevolezza di aver
vissuto più per la durata di un singolo bacio che non in tutta quella che sarà la mia
esistenza.