Il richiamo del lago

Ci sono sere - rare, a dire il vero - in cui la nebbia si addensa sopra il porto vecchio come un cappello di fumo, sfidando la brezza proveniente da sud e l’insistente frullare d’ali dei gabbiani.
E’ in quelle sere, dicono, che la si sente sussurrare.

 

Lo dicono i vecchi, per lo più, avvolti nei loro cappotti grigi e sformati, con la schiena appoggiata al bancone del bar e con l’immancabile calice di rosso nascosto in mano; lo dicono seriamente, con l’aria di chi la sa lunga, di chi ha vissuto abbastanza da potersi permettere di dire qualsiasi cosa. Lo dicono perché va loro di farlo e perché certe notti, quando l’aria è più fredda e pungente del solito e quando la luna macchia il cielo con il suo alone diafano, parlare può fare bene al loro cuore sgonfio e malato, molto più di un sorso di grappa o di una qualsiasi medicina (più di una scopata, direbbero, se solo potessero ricordare cosa vuol dire davvero) perché parlando, per un attimo, allontanano tutti quei pensieri che, inevitabilmente, a una certa età cominciano a vorticare in testa e si distaccano dalla loro condizione di “vecchi” per elevarsi ad un qualcosa di più spirituale, di più trascendentale. Di più dignitoso, comunque.
Quando questo succede, dai loro occhi scompare quella patina traslucida che solo l’abuso di alcool nel corso degli anni ha il potere di generare; il petto si gonfia come se il cuore avesse ripreso a battere più forte e le mani, le stesse mani che stringono quel bicchiere quasi fosse un tesoro di inestimabile valore, smettono di tremare e vanno a posarsi sulla tua spalla, in una stretta che mai e poi mai ti saresti aspettato.
Intanto il barista, dietro il bancone, guarda nella vostra direzione e distrattamente asciuga con un lembo del grembiule un boccale di birra mentre annuisce solenne, consapevole della rivelazione che probabilmente avrà già ascoltato almeno un milione di volte e che altrettanto probabilmente non si stancherà mai di ascoltare.
Gli altri vecchi, che per questa volta si devono limitare al ruolo marginale di comparse, si girano verso di voi fissandovi intensamente e mostrando sorrisi che sembrano grotte buie e profonde; non fanno altro che seguire il copione che si tramandano ormai da generazioni. Solo che il protagonista dello spettacolo sei tu. Tu che sei entrato al bar per un caffè e che ti ritrovi invece a dover dare retta ad un uomo che avrà come minimo il triplo dei tuoi anni e che, nonostante questo, riesce ancora a farti male mentre stringe con dita unte ed ossute la tua spalla.
Del resto sai benissimo che non puoi defilarti, sai che prima o poi tutti ci devono passare, e oggi è toccata a te. Sai anche che in un paese di ottocento anime non è consentito scavalcare tradizioni vecchie di secoli. E, in fondo, questo è uno degli aspetti che più ti piacciono, non lo puoi negare.
- Succederà anche stanotte - ti sputa in faccia, con l’alito che sa di vino da quattro soldi.
Non c’è bisogno di chiedere cosa stia per succedere, perché in fondo lo sai benissimo; le voci circolano in fretta, soprattutto quando si tratta di leggende che possono alimentare la curiosità generale, ma non puoi fare a meno di chiederlo perché nel copione immaginario che hai davanti agli occhi è scritto così. - Che cosa succederà? -
Il vecchio si guarda in giro. Forse cerca consensi o incitamenti da parte del suo (del vostro) pubblico. Trova tante teste che si abbassano ritmicamente a conferma della sua affermazione - La nebbia, giù al porto vecchio - continua - si è alzata all’improvviso, così, da un momento all’altro.
Tu sai già quello che ti sta per dire. Ovvio che lo sai.
La gente di Gera Lario non parla d’altro da che ti ricordi, quando avevi cinque anni e il porto vecchio era un luogo proibito perché si diceva fosse visitato dagli spiriti dell’inverno, spiriti fatti dell’aria gelida che si sprigiona quando le bare vengono aperte...
Lo sai ma non puoi dirlo, altrimenti spezzeresti il filo magico che si è creato e la tua iniziazione ufficiale non potrebbe essere completata.
E allora lo ascolti mentre ti parla della sera scorsa - una sera che, a giudicare dalle occhiate del pubblico, devono aver vissuto in molti - e della nuvola densa che dal lago è salita lentamente, allargandosi sempre di più fino ad inglobare tutto il porto vecchio e gli scheletri delle barche dimesse adagiate a riva; lo ascolti in silenzio, rapito, e chissà perché, ti salta in mente l’immagine di una bara scoperchiata e senti quasi il rumore del legno ormai marcio che si spezza e poi vedi il vapore gelido della decomposizione che si innalza al cielo come fumo da una locomotiva. Hai un brivido lungo la spina dorsale e per un attimo pensi che siano stati loro, gli spiriti dell’inverno, ad accarezzarti la schiena, quasi riesci a sentirli persino sussurrare mezze parole, frasi strascicate e impronunciabili e gemere sommessamente sbuffando nebbia dalla nebbia, fumo dal fumo. Ti sembra di sentirli ma non li senti, in realtà. Non ancora.
- Dicono che sia la volta del vecchio Cecco - afferma il vecchio con trasporto. Poi finisce in un solo fiato il calice che aveva ancora in mano e scuote la testa per schiarirsi i pensieri. - Il Conte stava pescando, giù al pontile. Una nebbia che non vedevi da qui a lì, mi dice. E dice anche di aver sentito pronunciare il nome del Cecco. Una specie di soffio, di sbuffo, come un sospiro. Ma lui ne è convinto. Ha fatto il suo nome.
Una delle verità di cui sei a conoscenza è che la nebbia di Gera Lario non parla. Sussurra. E in quei sussurri non è mai facile distinguere parole comprensibili.
Anche chi la vide nell’estate del ’51, la sera prima che il San Vincenzo spazzasse via mezzo paese in poche ore con una piena spaventosa, afferma di non aver udito nient’altro che deboli sussurri.
- Mi chiedo quando qualcuno sentirà il mio di nome - continua il vecchio. Il suo tono è cambiato ora, è più profondo. Abbozza un sorriso, e in quel sorriso scorgi una tristezza infinita.
Lo guardi e non puoi fare altro che annuire.
La mano ossuta dell’uomo fruga in tasca e trova il pacchetto sdrucito di MS. Toglie una sigaretta e la accende. - Il lago ha un fascino particolare, di notte. Tossisce e aspira una lunga boccata, in una pausa che sembra studiata apposta per l’occasione. - Tu sei nato qua, Paolo. Sai cosa voglio dire.
Finito di parlare, sbuffa nella tua direzione una nuvola di fumo che ti avvolge e, per un attimo che non può durare più di una frazione di secondo, pensi che quello non è fumo, ma uno spirito dell’inverno che cerca di parlare, che sta tentando di dirti qualche cosa...
Il pensiero non fa del tutto in tempo a concretizzarsi che il fumo si dissipa e lascia spazio al volto raggrinzito e sorridente del tuo vecchio, scheletrico amico.

 

Francesco Ferrario fissa le montagne che, nel riverbero lunare, sembrano sospese sopra al lago, come se fossero appese a fili invisibili che scompaiono nell’immensità del cielo. Non si era mai reso conto di quanto fossero massicce ed imponenti - quasi prepotenti, gli viene da pensare - né di quanto la massa d’acqua, in quello spicchio di mondo, desse l’impressione di un’enorme chiazza di inchiostro.
In quel momento si accorge che in tutta la vita ha avuto troppo poco tempo per poter apprezzare quei piccoli dettagli che, ora che la notte è un sudario silenzioso, gli appaiono più nitidi che mai... il richiamo delle strolaghe, il fruscio degli alberi mossi dalla brezza autunnale, lo sciabordio delle onde, calmo, metodico, quasi ipnotico.
A settant’anni suonati si sente vecchio per cominciare a trarre piacere da cose che solo pochi giorni prima avrebbe giudicato insignificanti e un po’ se ne rammarica.
Del resto questa è la serata dei rimpianti, pensa, stringendosi le braccia al petto per scacciare i brividi di freddo. Osserva gli sbuffi di condensa che escono dalla bocca ad ogni respiro, ad ogni accenno di tosse e, senza volerlo, si accorge che i respiri si fanno sempre più rapidi e affannosi, i colpi di tosse più insistenti, come se un timer interiore si fosse attivato all’improvviso per scandire meglio quei minuti, quei secondi.
Probabilmente non è solo il freddo la causa dei brividi.
Alza il bavero del cappotto e fa qualche passo in avanti, sui ciottoli melmosi che tutti si ostinano a chiamare spiaggia, attento a non perdere l’equilibrio. Lì il rumore della risacca è più forte. Gli penetra nella testa, gli martella il cervello come un mantra ossessivo, impossibile da scacciare.
Strizza gli occhi con forza per allontanare i suoni che gli rimbalzano dentro.
La notte è deserta e non potrebbe essere altrimenti, con la temperatura di due gradi al di sotto dello zero, ma Cecco si guarda comunque intorno nervosamente, a destra, a sinistra e infine dietro sé, dove la stradina sterrata che dalla Statale giunge direttamente al lago si inerpica come un serpente di arbusti e ghiaia.
Niente. Nessuno. Solo il suo respiro e i suoi colpi di tosse.
E la sua paura.
Un improvviso sbuffo di vento gli accarezza il collo, facendolo rabbrividire.
Ci siamo, pensa. Sono arrivati a prendermi.
Prima di sentire la voce, è come se l’avvertisse nelle ossa, sotto la pelle. Una sensazione strana, innaturale. I peli delle braccia si rizzano, come sfiorati da una gelida mano invisibile mentre il cuore comincia a battere più forte, al ritmo delle onde che si infrangono sui sassi.
“Francescooo...”
La voce che lo ha condotto lì, ora riprende con più intensità.
Sembra provenire direttamente dal centro del lago, o forse è solo nella sua testa. Non lo sa, non riesce a capire.
Lascia cadere il cappotto, rivelando alla notte la sua nudità.
Se potesse guardarsi allo specchio, con ogni probabilità non riconoscerebbe quello sguardo vuoto, spento, mentre osserva il lago senza vederlo veramente.
Un altro tocco leggero gli solletica la mano, invitandolo ad avanzare di qualche passo.
Ora i suoi piedi sfiorano l’acqua gelata ed è come se fossero trafitti da migliaia di aghi di ghiaccio. Avverte la pelle staccarsi dalle ossa e colare come cera, ma non prova dolore, solo una sensazione di distacco, di abbandono.
Tante volte aveva sognato quel momento, cercando di immaginarselo, di capire come sarebbe stato e che cosa potevano aver provato sua moglie Luigia e suo padre prima di lei e sua sorella Marta e tutte le persone care che se ne erano andate da tempo, ma nulla di quello che aveva pensato può avvicinarsi alla realtà e ora è felice di constatare che la sofferenza non è prevista in questo trapasso.
Sorride, con gli occhi umidi di lacrime. Occhi che non possono più vedere ma che, per l’ultima volta, riescono a parlare.
Francesco spalanca le braccia di fronte alla sua tomba, sentendo le carezze delle anime che lo reclamano e la voce della donna che ha amato per così tanti anni, poi si lascia cadere in avanti, sciogliendosi nell’abbraccio del lago.
Quindi è questa la morte? si chiede.
La sua risposta si perde nel borbottio delle onde.

 

Sale lenta, dal lago, come fumo.
Dapprima è solo una patina lattiginosa, un sottile strato che riflette il bagliore della luna, poi si estende tutta intorno, andando ad abbracciare i cadaveri delle barche, le reti dei pescatori abbandonate a riva, la statua della madonna con i suoi contorni dorati...
In pochi minuti il porto ne è completamente saturo.
E qualche vecchio, domani, avrà una storia da raccontare.

Paolo Azzarello