Accadde in collina

Alla fine dell'estate, Paride Cuoghi ricominciò a sentire le voci dei morti.
Succedeva sempre. Ogni volta, quando se ne andavano, si illudeva che non li avrebbe sentiti più, ma ogni volta tornavano a parlargli, come un moscone. E ogni volta gli restava il dubbio: e se un giorno lo avessero portato con sé? Classe ’22, classe di ferro: padano duro e tignoso, che non li stendono le fucilate. Alla sua età, con tutto quello che aveva già vissuto, si poteva pure rassegnare, nel caso. Ma proprio con loro... meglio di no, dai. Però gli parlavano.
Li sentiva nei momenti più assurdi della giornata, quando tornava dall’osteria o quando si fermava ai bordi del campo, a guardare le viti. Li sentiva quando andava in bagno o quando voleva dormire. Borbottavano, sussurravano, come comari in chiesa. Ed erano una gran rottura di scatole, diobono.
«Tès sö un po’!», gli era scappato detto, un giorno, tra una briscola e un lambrusco.
«’Sa gh’èt?», gli aveva chiesto Ennio, il suo compagno, alzando la testa dalle carte.
Paride non s’era neanche accorto di aver parlato ad alta voce. «No, gnénta», aveva risposto. «Stavo pensando», e giù col cavallo di coppe.
«Sa t’al dìs té...»
«Va là, che diventi vecchio!», aveva commentato Ermete, strozzando col tre. «E questa la vinciamo noi. Ciapa lé e porta a ca’!»
Quel giorno s’era risolto tutto in una risata, cogli amici dell’osteria, ma Paride non ci rideva mica tanto. Perché i morti continuavano a parlargli e lui li conosceva.
Il peggio era nei campi. Ci andava ancora, di tanto in tanto, anche se la schiena era quella che era e gli anni non calavano mica. Biolche di terra non ne zappava più, ma alla vigna ci teneva e un buon bicchiere di vino tornava sempre comodo. Non voleva che andasse tutto in zerbi. Ci aveva lavorato lui e ci aveva lavorato la sua famiglia, da sempre. E pazienza se non aveva figli, né moglie. La sua parte l’avrebbe fatta fino alla fine.
Ed era lì, tra viti e gramigna, che parlavano di più. I morti, già. Parlavano, ripetendo le stesse frasi, ogni giorno, e Paride ricordava fin troppo. Poterli far tacere... Perché si accanivano tanto con lui? O magari lo facevano con tutti?

Poi si guardava attorno, nella vigna, e pareva quasi che lì, sul fianco della collina, si rintanassero anche i volti, non solo le voci. A volte temeva che sbucassero fuori davvero, tra l’uva che maturava piano, e poi ritrovarseli davanti, i morti che conosceva lui. Ancora non era successo.
Ci pensava di meno, quando era in casa o in mezzo agli altri. Ci pensava di meno, eppure ci pensava sempre. Perché loro parlavano, mormoravano, chiedevano.
Li vide infine nello specchio, una mattina, quando settembre tramontava già in ottobre. Due paia di occhi lo fissavano di rimando e uno solo era suo. Si stava aggiustando la dentiera e si prese uno di quegli spaghetti, che gliela fece cadere nel lavandino. Sdentato, terrorizzato, li vide aumentare pian piano, occhi che si aggiungevano a occhi, fino a riempire tutto il vetro. Occhi e basta, senza facce. Li fissò a lungo, cercando di farfugliare qualcosa, di coprire quelle voci con la sua. Non ci riuscì.
Lo specchio era una parete di sguardi, giovani e vecchi, maschili e femminili, tutti vuoti, tutti che lo tenevano sotto tiro, freddi. Sguardi di cadaveri, cui nessuno aveva chiuso le palpebre.
Poi la campana batté le sette e gli occhi sparirono. Ne restavano due, congelati, in un volto che non pareva più il suo, eppure lo era. E le voci. Si dovette cambiare i pantaloni, prima di uscire, e non fu un problema di prostata.
Quella notte si sognò la guerra, per la prima volta dopo anni. Brutta roba, quella. Se l’era presa in testa quando era giovane, come una badilata, e come una badilata aveva scornato lui e tutti gli altri del paese, amici o nemici. Esperienza da piangerci, con quello che avevano fatto e visto, mica balle. Forse per questo non ci aveva più pensato, neppure in sogno. Tranne quando i morti parlavano.
In quei giorni, però, ricordava tutto, come se lo stesse ancora vivendo. Forse perché da vecchi le barriere sono più sottili e il passato si fa più presente. O perché sentiva quelle voci, che non avevano mai smesso del tutto di parlare, in sessant’anni. Erano state il rumore di fondo della sua vita.
Dormì male e si svegliò peggio. Ad accoglierlo, nella stanza gonfia d’umidità, c’erano le voci. Gli si attaccavano alla pelle, nel buio, come zanzare o sudore estivo. Voci, senza corpo.
I morti che gli parlavano, che gli venisse un canchero! Ed erano parole fredde e fioche, come ci si può aspettare dai morti. Parole pesanti, sussurri pesanti. Familiari.
A settembre, quel settembre, faceva ancora caldo, ai margini della pianura, ma Paride si seppellì tra le lenzuola, fin sopra la pelata. Sperava di non sentirle, forse non le sentiva, ma le sentiva lo stesso. Le avrebbe sentite anche se fosse stato sordo, perché quando un morto ti parla, mica ti puoi tappare le orecchie e far finta di niente. Sei costretto ad ascoltare quello che dice. E lui ascoltava.
Siamo qui... guardaci... ti aspettiamo... siamo noi... ci hai venduto... eri con loro... eri tu...
Ma non capiva. Non voleva capire e aveva paura che fossero lì per portarselo via, quella volta. Per vendicarsi, forse? Per fare giustizia? Ma lui non era stato peggio degli altri, diobono!
Li sciacquò nell’acqua fredda del bagno, li soffocò nella colazione, li calpestò sotto gli stivali, tra i tralci della vite. Non tacevano. Il giorno dopo fu quasi lo stesso. Tornavano, tra notte e alba, e lo accusavano, gli ricordavano tutto, mettendolo di fronte al passato. I morti gli parlavano e le voci gli esplodevano nella testa.
E ogni volta si sognava la sua giovinezza.
Ai primi di ottobre li incontrò nella vigna, alla luce del sole. Se li vide in faccia, non semplici voci ma forme concrete, tanto concrete quanto possono esserlo i fantasmi, o i ricordi. Tanto concrete che in fondo sono solo illusioni, ma fanno male lo stesso, anche quando non esistono più. Quel sabato, Paride li dovette affrontare.
Camminava come al solito, tranquillo almeno in superficie, tra grappoli ormai maturi, pronti per la vendemmia. Poca roba, niente da lavorarci troppo: con Ennio, se la sarebbero sbrigata in fretta. Qualche bottiglia da bere, per addolcire l’età. Mica come una volta, quando si sudava per giorni e giorni, tutti insieme, e poi sotto a pigiare, riempire le botti. Ma il tempo se ne va e pure la campagna non era più giovane come prima. Paride sospirava, scendendo la collina.
Arrivarono in silenzio. Dalla terra, dalle viti, dall’aria e da ogni altra cosa. Arrivarono e gli furono attorno, inattesi ma non poi così tanto. Perché sapeva già come sarebbe andata, cosa volevano da lui, quella volta. Dai e dai, anche l’indifferenza cede, come un argine maestro. E allora c’è solo da tenere duro e provare a reggere l’onda, quando viene. Veniva adesso.
Paride li vide appena, vaghi bassorilievi nell’aria. Come gli occhi nello specchio, c’erano giovani e vecchi, maschi e femmine. Di uomini, di uomini validi, ce n’erano pochi, perché anche quella volta ce n’erano pochi, in paese. Lo fissavano in silenzio, come un muro di vuoto: le donne coi bambini accanto, gli anziani solo stanchi, sfatti.
«Cosa volete?», chiese ai volti trasparenti.
Tacevano.
«Cosa volete?», ripeté, sudando nel sole d’autunno.
Tacevano. Paride sbuffò, mordendosi un labbro.
«Chi siete?»
Siamo noi, gli risposero in coro.
Non li conosceva di persona. Quella folla era un gruppo anonimo, incolore per lui. Sapeva però chi fossero, lo aveva imparato nel corso degli anni. E che ci facevano lì, quel giorno? Glielo chiese.
«Che ci fate, qui?»
Stiamo qui.
Semplice, diretto, insensato. Mica una bella storia...
«Perché siete qui?»
Perché siamo qui.
«Da dove venite, diobono
Da qui.
«Cosa vuol dire, eh? Da dove venite?!»
Dai campi. Dall’acrocoro. Da te.
Da te. Forse si era sbagliato, dopotutto. Forse non erano loro a venire da lui, ma lui a chiamarli. Ma era possibile? Possibile? E perché continuava a cavar fuori quella storia?
«Io non ho fatto niente, eh! Non ho fatto niente!», disse, a voce alta.
Non hai fatto niente.
«Non vi ho neanche toccati, io. Chiaro?»
Non ci hai neanche toccati.
«Non sono stato io!»
Non sei stato tu.
Paride indietreggiava, indietreggiava dalla folla e dal rimorso, arrivato cogli anni ma troppo tardi: l’idea che forse, dopotutto, non avevano fatto la cosa giusta. Forse. Ma non c’era spazio. Il passato era ovunque, occupava ogni palmo della vigna. Il fianco della collina, sotto il sole, e la campagna attorno, come allora. Cambiavano le facce. Di carne, prima; di vento, adesso. Ma non gli occhi e ciò che vi leggeva. Ammesso che lo leggesse negli occhi e non dentro di sé.
«Io non ho sparato!»
Tu non hai sparato.
«Li guidavo e basta!»
Li guidavi e basta.
«E allora perché?!», gridò all’aria.
Non rispondevano. Guardavano in silenzio, come se la risposta fosse nei volti, negli occhi. Come se non ci fosse risposta.
E in fondo non c’era, perché per decenni non ne aveva avuto bisogno. Non l’aveva neppure cercata, la risposta. Quando i morti tacevano, neppure ci pensava. Forse era una colpa, sì, ma non l’aveva mai vissuta come colpa. Dunque era innocente. Eppure tornavano, i morti e le loro voci. Solo allora cercava una risposta, ma non la trovava.
«Io ero una guida! Io dovevo farlo. Mi capite?!»
Tu dovevi farlo. Ti capiamo.
«Era il mio dovere!»
Era il tuo dovere.
«Avevano detto che non l’avrebbe saputo nessuno!»
Non lo sa nessuno.
«E allora perché?!»
Di nuovo gli rispose il vento, col silenzio.
Piangeva, Paride, in ginocchio nella vigna. Piangeva e balbettava, come un vecchio rimbambito. Gridò ancora la domanda, la gridò più volte, ma nessuno gli rispondeva. Perché i morti non erano lì per giudicarlo, per rivangare il passato. Sono cose che fanno i vivi, perché hanno tempo da perdere. Loro lo fissavano freddi, vuoti, come freddo li aveva fissati lui, sessant’anni prima, nascosto dalla maschera di una divisa. E basta.
«Perché?», supplicò, senza voce. «Perché siete qui, ora?»
Ci siamo sempre stati.
«Perché?»
Per questo.
Un morto gli tese la mano, gli altri fissavano. Fissava anche Paride e non capiva.
«Proprio adesso?»
Proprio adesso.
Dunque erano lì per quello, per portarselo via? Era arrivata anche per lui? Che poteva fare? Fuggire no, perché non c’era posto dove fuggire. Lo avrebbero trovato, come sempre. L’avrebbero trovato, perché erano morti ma non del tutto. Non per lui. Si arrese, stanco.
E l’afferrò, con un sospiro, ed era una mano solida, concreta. Una mano che l’aiutò a rimettersi in piedi, senza amicizia, senza odio. Solidarietà anonima, da uomo a uomo, perché il passato ormai non contava più. Era passato.
«Mo ‘sa fèt? Sei scapuzzato?», gli chiese una voce reale, viva. Paride aprì gli occhi e vide il volto di Ennio chino su di lui, preoccupato. La mano che stringeva era la sua. L’ombra dei tralci era sottile, su loro, come una gabbia impalpabile. Erano soli.
«’Sa gh’èt, vè’?», gli chiese l’amico. «Stai bene?»
«No, niente. Sono un po’ stanco», rispose Paride. Si alzò, spazzolandosi i calzoni. La vigna taceva, deserta. Anche per quell’anno l’aveva scampata. Qualunque cosa volessero, se n’erano andati tutti. Di sfuggita, si guardò attorno. Nessuno. Si allontanò con Ennio, verso il paese. Meglio non pensarci più, far finta di niente. Meglio lasciarli zitti, finché tacevano. E rubarsi un altro po’ di vita.
Ma sarebbero tornati ancora. E ancora, e ancora. Proprio come erano tornati loro. Per tre giorni, a cercare gli scampati, a finirli, coi fucili e le bombe a mano. Perché una parte di lui non se n’era mai andata di là e continuava a marciare, col maggiore Reder, coi tedeschi, coi suoi fantasmi personali.
Marciava ancora, in divisa nera, sul cadavere di Marzabotto.

Adriano Marchetti