L'uomo caduto

Quella notte sognò di nuovo di cadere.
Ma questa volta era diverso dalle precedenti. La sua attività onirica si era intensificata e fatta più vivida nell’ultimo periodo, anche quella che avveniva in stato di dormiveglia. Eppure mai come un quella notte di metà marzo un sogno era stato così reale.
Cadeva.
Precipitava da un’altezza incommensurabile. Non sapeva da dove fosse caduto, o non lo ricordava, ma il paesaggio attorno a lui, deformato dalla velocità di discesa, sembrava quello di un’enorme metropoli. Altissimi palazzi grigi lo circondavano e, in basso, poteva scorgere strade asfaltate e intasate da milioni di automobili.
Cadeva ma non gridava.
Non percepiva, sul momento, una sensazione di panico. A volte nei sogni si provano emozioni in netto contrasto con la situazione che si sperimenta e, secondo alcuni, è proprio questa la chiave per la loro corretta interpretazione.
Ma per lui non era necessariamente così. Non urlava perché gli piaceva. Si sentiva libero con l’aria che gli lambiva il volto e gli scarmigliava i capelli, infilandosi anche nei suoi vestiti, che deformava e gonfiava in maniera grottesca.
Di avere paura avrebbe avuto tutto il tempo necessario in seguito.
Perché, anche se l’asfalto si faceva sempre più vicino, la discesa era ancora lunga.
E, comunque, era soltanto un altro sogno.

Lo trovarono la mattina dopo.
Giaceva ai piedi dell’ottomana, con ancora la coperta mezzo avvolta intorno alle gambe. Nella posa tipica di chi, in una notte agitata, aveva perso l’equilibrio ed era finito giù dal letto.
Solo che il cranio era appiattito e sanguinante, come dopo un forte colpo, il busto era deformato dalle costole rotte che ora alzavano, ora abbassavano porzioni del torace, e il braccio sinistro era decisamente spezzato, piegato com’era in quella posizione innaturale.
A tutti sembrava logico ritenere che fosse precipitato da molte decine di metri.

Andrea Santucci