Ogni volta che la pubblicità

Sul piccolo schermo si stagliò la Moby Prince: intricati rottami di lamiere in cui si intravedevano resti umani carbonizzati. Il traghetto, speronato da una petroliera, era andato in fiamme.
L’immagine a un tratto fu dimezzata, e nel riquadro di destra apparve lo speaker. Aveva come al solito un'espressione come se una puzzola si fosse accampata sul suo volto.
”L’inchiesta sul dramma della Moby Prince dopo la pubblicità” annunciò con voce falsamente garrula.
Un dito schiacciò il pulsante rosso del telecomando e lo schermo divenne nero. L’uomo a cui quel dito apparteneva, uno dei milioni di italiani che ogni giorno consumano tonnellate di programmi televisivi, sospirò profondamente, si staccò dalla sua poltroncina, andò al telefono. - Pronto?
- Sì? - gli fu risposto. La voce di un tizio di mezz’età, come lui.
- Salve. Che stavi facendo?
- Niente di particolare... guardavo la tivù. E tu?
- Non fanno un cazzo alla tivù.
- Beh, non proprio... solo che gli spot interrompono sempre.
- Appunto. Interrompono... e rompono. Sai a che penso?
- Va bene, ho capito. Vediamoci.
Quella notte la nebbia era strana. Bruciava la gola. Si vennero incontro al solito incrocio, sotto il monumento dell’eroe a cavallo. Nessuna parola corse tra loro. Si fissarono negli occhi, e dall’intensità dello sguardo ciascuno dei due capì che non c’era ombra di fallacia nella decisione che avevano preso.
Cominciarono ad aggirarsi nel vasto deserto di cemento. Città di smidollati, di morti di sonno, di telerimbambiti. Dalle finestre provenivano bagliori. Fiammelle. Fiamme. Si muovevano.
Il servizio televisivo sul disgraziato traghetto era ancora in corso. ”May day, may day.” Poi, di nuovo lo strepitare dei filmetti pubblicitari.
Nel cosiddetto quartiere dei divertimenti c’era un po' più di movimento, ma non tanto. La videro uscire dal locale Al Cacatua. Barcollava un po', forse perché mezza ubriaca o per la difficoltà a mantenere l'equilibrio sugli alti tacchi a spillo.
La seguirono silenziosamente; poi, all’altezza di una certa strada, la presero a braccetto, uno da destra e l’altro da sinistra e, quasi sollevandola, la spinsero verso un androne. La giovane donna fece appena in tempo a protestare: una robusta mano le tappò la bocca, schiacciandole le labbra, belle e piene, sulla dentatura pressoché perfetta.
La sospinsero fino a un paio di numeri civici più oltre, dove uno dei due tirò fuori un mazzo di chiavi, e dopo più giù, lungo una scaletta lurida, fino a un pied-a-terre buio e spoglio, più propriamente una cantina riadattata ad appartamentino, di cui entrambi pagavano l’affitto sotto falso nome.
Una volta richiusi i molteplici catenacci che costellavano la porta, le dissero di spogliarsi. Lei si guardò intorno terrorizzata. L’ambiente era insonorizzato tramite speciali pannelli, la finestra sbarrata con assi di legno. Dapprima si rifiutò di ubbidire, pretendeva spiegazioni; ma uno schiaffone ben assestato la mandò a ruzzolare sul pavimento. Si convinse ad acconsentire. Piagnucolando, cominciò con il togliersi la giacca...
Era stata una serata di merda. Al Cacatua, dove si era annoiata come forse mai prima, la sua gang di amici le era sembrata formata da maschere vuote, automi schiavizzati dall’industria dei ludi. Un estraneo aveva cercato di abbordarla, ma dopo un ballo o due lei lo aveva mandato a quel paese. Tutti quegli uomini avevano un aspetto orrendo oppure erano mosci, privi di verve. Proprio una serata sbagliata. Adesso però capiva che per lei il peggio doveva ancora arrivare. Ritardò per quanto possibile lo spogliarello, sempre sbirciando in giro. Ma c’era ben poco da vedere. La lampadina nuda che penzolava dal basso soffitto mostrava pareti imbrattate e sporcizia in ogni angolo. Molti giornali erano sparpagliati qua e là.
Rimase infine in slip e calze di seta.
- Sembri una della televisione - commentò uno dei sequestratori, slacciandosi la cintura dei calzoni. L’altro intanto la sospingeva verso il letto, unico requisito di arredamento nella spoglia tetraggine del sotterraneo.
Le strapparono le mutandine e presero a violentarla. Lei piangeva, si dimenava, ma si costrinse a fare la buona quando si rese conto che opporre resistenza significava solo beccarsi poderose sberle in piena faccia. Suo malgrado, si accorse che il suo corpo rispondeva alle sollecitazioni. Nervi e muscoli si tesero fino allo spasimo, facendola agitare in ondate sinuose.
Dopo il secondo orgasmo dei due uomini, ne ebbe uno anche lei. I rapitori la osservarono compiacuti.
Ancora ansante, la donna implorò, aggrappandosi a un’assurda speranza: - Ora lasciatemi andare. Domani devo alzarmi presto...
- Lavori alla tivù? - insisté stranamente il primo dei due.
Ormai li chiamava mentalmente ”Primo” e ”Secondo”. ”Primo” era il meno dotato fisicamente, ma possedeva parecchia più abilità dell’altro. Non c’è da stupirsi: era cresciuto con Vanessa del Rio e la Schubert, campionesse mondiali di pornoatletica. Dietro al culto di Onan, che ancora oggi praticava ossessionatamente, montava in lui sempre più alta la voglia di punire, di far del male. Aveva un matrimonio fallito alle spalle e, da quando aveva perso pure il posto di impiegato in un’agenzia pubblicitaria, trascorreva le sue giornate in una nullatenenza dai connotati demenziali, un amaro far nulla caratterizzato da un astio verso il mondo intero, e soprattutto verso i personaggi pubblici. ”Secondo” invece era stato schiaffato in un collegio di preti a età precocissima, e fin da sempre detestava le donne; le detestava perché, per ragioni radicate non solo in esperienze omoerotiche, ma anche nell’abbandono da parte materna e nel senso di colpa ereditato dalla Chiesa, ne aveva semplicemente paura.
- No, non lavoro alla tele - rispose lei con occhioni spaventati. - Faccio la segretaria. Devo alzarmi alle sei... Per favore!
Per tutta risposta, fu nuovamente violentata. La imbrattarono con il loro sperma. Poi Secondo prese a strizzarle le tette, dolorosamente.
- Lasciami! Mi fai male!
Lui nitrì alto e continuò a tormentarla, stringendo addirittura con più forza. L’altro, Primo, dal canto suo le afferrò una mano come per volerla consolare. - Ma dài! - esclamò. - Questo è ancora niente... - E, con un movimento improvviso, le spezzò l’indice mignolo.
Lei capì: è la fine. Voleva urlare, ma non ne ebbe neppure la forza.
Primo si recò a un angolo. Si chinò. Tornò verso il letto con un giornale e con un oggetto che aveva tutta l’aria di essere un machete.
- Da' qua! - esclamò Secondo tutto eccitato, togliendogli l'arma di mano.
Primo spiegò il giornale davanti agli occhi colmi di lacrime della donna.
- Leggi!
E lei, massaggiandosi il dito spezzato, lesse:

 

Il corpo di una studentessa di 18 anni di Arce è stato trovato nei pressi della statale Valle del Liri. La ragazza aveva un sacchetto di plastica in testa ed era ”incaprettata”, cioè aveva mani e piedi legati dietro la schiena. Era uscita di casa martedì per andare all'università, dove voleva informarsi su un corso di studi. E' stata vista per l'ultima volta a ora di pranzo in una pizzeria; in serata il padre, non vedendola rientrare, si è rivolto ai carabinieri, che hanno avviato le ricerche. Il cranio della ragazza era sfracellato e il corpo presentava diversi tagli profondi...

 

- Che... che cosa significa?
- Lo sai benissimo che cosa significa - sbottò Secondo e, manovrando con il machete, le fece un’incisione su un seno.
Lei cacciò un urlo, ma Primo la colpì con un pugno in mezzo alla fronte, stordendola. Era la fine, sì. Ancora parzialmente in possesso dei suoi sensi, si sentì sollevare. Ma che stavano facendo? Che diavolo volevano fare?
Lo scoprì ben presto, suo malgrado.
La afferrarono in due e cominciarono a sbatterla su un muro. Quindi, usando la sua testa a mò di pennello, disegnarono sulla parete una rozza croce uncinata. Il tutto ridendo. All'ultimo finirono di sfigurarle il volto con l’esotica arma da taglio in loro possesso.
Secondo uscì per andare a prendere il suo furgoncino. Quella mattina aveva messo nel motore 40 litri di Iranian Light, crude oil... Abbandonarono il cadavere in un bosco a quaranta chilometri dalla città e se ne tornarono ognuno a casa propria.

 

Era un venerdì pomeriggio di pioggia tediosa e altre assurdità assortite. Assurdità non solo di natura meteorologica: bastava guardare la tivù per capire che il mondo era completamente, definitivamente impazzito. Trasmissioni di gossip, quiz per individui scarsamente acculturati, un documentario sulle usanze amorose di un certo tipo di ragno sudamericano... E, a un dato punto, scoppiò la pubblicità. Contemporaneamente, su ogni canale. Un bercìo inesorabile...
- Pronto?
- Pronto.
Due impermeabili grigi si aggirarono ben presto per gli altrettanto grigi meandri della città. Mentre l’oscurità calava, tutti gli apparecchi televisivi stavano sintonizzati sul vortice di spot che si susseguivano a mitraglia. Bisognava reagire, esorcizzare le vertigini, innalzare una diga per contenere il nulla del troppo, la lobotomia dilagante...
Loro sapevano in che modo.

Franc'O'Brain