Anno 2007.
Il cellulare lo fulminò al ritorno dallufficio. Spense lautoradio, accostò,
tolse laggeggio di tasca, senza entusiasmo. Numero privato, dichiarava il display.
Inizio pessimo: cera sempre la fregatura, quando nascondevano il numero, e Paolo
Volpi ne aveva già incassate parecchie. Abortì la nascente bestemmia.
«Pronto?»
«Ohi, Paolo, hai cinque minuti?»
Dario Ferrazzi, appunto. Cosa sera inventato, stavolta?
«Sì, ma mi servono. Facciamo domani.»
«È urgente. Ci hanno beccati.» Parlava come una radio dalle pile quasi scariche.
«Cosa intendi?»
«Lo sai cosa intendo. Allora, ce li hai cinque minuti?»
Eccolo fregato. Come sempre. Maledetti i numeri privati! E maledetto pure Dario, già che
cera.
«Per forza che ce li ho», rispose stanco.
«Perfetto. Dobbiamo parlarne di persona.»
«Dove sei, adesso?»
«Al 127.0.0.1»
Al solito, pensò. Feticista dei computer. «Perché non puoi dire
casa, come le persone normali?»
«Perché non è lo stesso, lo...»
«Lascia perdere», interruppe Paolo, «e aspettami lì. Arrivo subito.»
Guidò in fretta, sotto un cielo di calcestruzzo. Pareva dovesse piovere da un momento
allaltro, ma pareva soltanto: non sera ancora vista una sola goccia. Tempo
di merda, bofonchiò tra i denti.
Ci hanno beccati. Magnifico! Il modo giusto per concludere la giornata. Non aveva neppure
la forza di arrabbiarsi, dopo dieci ore dufficio. È tutto sicuro, vedrai. Non se ne
accorgeranno. Andar male? No, impossibile. Un affare! Quante volte glielo aveva ripetuto,
Dario, per convincerlo? Alla fine ce laveva fatta, ovvio. Ce la faceva sempre.
Nomen omen, vero?, si chiese ironico Paolo, Volpi di nome ma non di fatto.
Stavolta, però, serano ficcati in un bel casino, se li avevano beccati davvero. E
tutto grazie a Dario. Hacker, cracker, wafer: che si facesse chiamare come voleva, quello,
ma restava sempre un idiota.
«No, lidiota sono io che lascolto», borbottò di nuovo, mentre parcheggiava
davanti alla sua casa. «Sono io lidiota vero, perché non lho ancora mandato
dove merita.»
Scese di malavoglia, camminò di malagrazia e bussò in malo modo. Sarebbe dovuto essere
sul suo divano, ora, a riposarsi in attesa che lacqua bollisse. Sul divano a
guardare il niente, ma soprattutto a pensare a niente. Invece...
«E non apre nemmeno, lo stronzo!»
Bussò di nuovo, poi provò la maniglia. Era già aperta. Entrò sbuffando.
Non cera un cane, lingresso era buio.
«Dario!»
Premette linterruttore, lo premette di nuovo. Niente luce. Ma possibile che non
funzionasse nulla, quella sera? Chiamò ancora.
«Dario!»
Gli rispose il silenzio. Con un sospiro, si avviò verso linterruttore generale, che
fortunatamente non era molto lontano. Con tutte le volte che laveva sistemato lui,
dopo che quel deficiente aveva fatto saltare la corrente, lavrebbe potuto trovare
anche alla cieca. E lo trovò, infatti.
Abbassato, come era lecito aspettarsi. Lo sollevò e si guardò attorno, nella casa ora
illuminata. Non una traccia di Dario. Era uscito, lasciando tutto aperto e acceso? Anzi,
acceso no, perché mancava la luce. Ma la porta era aperta, questo sì. E allora?
Paolo non aveva ancora deciso se preoccuparsi o arrabbiarsi. Quellidiota lo aveva
fatto arrivare lì, spaventandolo con la storia del ci hanno beccati, e poi
manco si faceva vedere. Cosa era tenuto a pensare lui, a quel punto? Che lo stava
prendendo in giro? O che lo avevano già beccato, chiunque fossero quei loro?
«Dario!», chiamò per la terza volta, avanzando verso la sala. Ancora nessuno.
Tutto era in ordine, però. Almeno, non più in disordine del solito. Il tavolo pieno di
cartaccia, due o tre libri sul pavimento, resti di spuntini non ben definiti. Mancava solo
il padrone di casa.
Scostò una tenda e guardò dalla finestra. Il cielo era un po più scuro, tinto
dalla notte imminente, e prometteva sempre pioggia, senza mantenerla. Masticò una
bestemmia, per calmarsi.
«E adesso?», si chiese. «Lo chiamiamo?»
Lo chiamò. Posato contro il davanzale interno, trafficò con lodiato cellulare,
utile di tanto in tanto. Non quella volta. Il numero da lei selezionato non è al
momento raggiungibile, cantilenò una voce meccanica. Soffocò limpulso di
scaraventarlo contro il muro.
Sparito e col telefono spento. Ottimo.
Si maledisse per lennesima volta. Era un idiota di prima categoria: idiota per
essersi fidato ancora di Dario e idiota per aver voluto fare una bravata da adolescente
stupido, a quarantanni suonati. La collaborazione del secolo: labilità
informatica dellingegner Ferrazzi, unita alle alte competenze del dottor Volpi, per
fregare tutti i sistemi di sicurezza. Butch Cassidy e Sundance Kid, yeah!
Gianni e Pinotto, semmai.
Ci hanno beccati.
Attraversò il pianterreno a grandi passi, stanza per stanza, con la calma di un gorilla
in calore, pieno di anfetamine. Niente Dario, quasi lavessero assunto in cielo,
lasciando indietro solo limmondizia terrena.
Infilò le scale, sbuffando. Che stesse dormendo, di sopra? Roba da ucciderlo! Non sarebbe
stata la prima volta che lo convocava durgenza, per poi dimenticarsene, come se non
gliene fregasse nulla. Ma stavolta lo strozzo, si giurò.
Percorse il corridoio, aprì la porta dello studio e lo vide. Seduto al computer, la più
classica delle pose dariesche. Solo che era al buio. «Dario», gli disse, accendendo la
luce.
Dario non gli avrebbe risposto.
Glielo suggeriva la testa, piegata in avanti, fino a toccare le mani sulla tastiera.
Glielo suggeriva il corpo, nel complesso, abbandonato come un saccone di patate. Glielo
suggeriva lo schermo nero del computer: a giudicare dalle cuffie, infilate ancora nelle
orecchie, in precedenza doveva essere stato acceso. Glielo confermarono infine le sue
stesse dita, quando le posò sul collo dellamico.
«Merda», commentò a freddo. Non ne avrebbero parlato di persona, poco ma sicuro. E
adesso?
Un repentino attacco di fifa tremens gli impose di guardarsi attorno, frenetico. Una casa
vuota, con un cadavere: se ci fosse stato pure qualcuno vivo? Per esempio, chi aveva prodotto
il cadavere? Non un pensiero gradito, per Paolo. Ci hanno beccati, gli aveva
detto Dario, poco prima. Possibile che lo ammazzassero per quello? Per aver frugato un
po qui e là, nei computer altrui?
Subentrò unaltra idea. Erano passati venti minuti dalla telefonata. Doveva essere
morto dopo aver chiamato. Dunque...
«Merda!», ribadì, più convinto.
Chiuse la porta e la barricò con un mobiletto. Forse non era solo, lì dentro, ma una
cosa la doveva fare, prima di filare via. Probabilmente inutile, daccordo, ma poteva
anche salvargli il culo.
Frugare lo hard disk e poi formattarlo, per cancellare ogni prova di ciò che avevano
combinato. Sentite condoglianze a Dario, ma non voleva raggiungerlo subito. Volpi di nome
e di fatto, per una volta in vita sua.
Stringendo i denti, sfilò la tastiera da sotto il cadavere. Accese.
Mentre aspettava che si avviasse, raccolse le carte sparpagliate sul tavolo, attorno alla
stampante, e quelle che ancora ne sporgevano. Spazzatura o documenti importanti? Meglio
controllare.
Guardò rapidamente. Formule e schemi strani, che uno Einstein qualunque avrebbe certo
capito, in tre, quattro ore di studio. Intascò tutto: se erano inutili per lui, magari
potevano non esserlo per altre persone. Magari Dario aveva fregato quei documenti da
qualche parte, per esempio...
Adesso, il computer. Era morto mentre ci trafficava: non era impossibile che contenesse
indizi utili. Valeva la pena di cercarli, prima di cancellare. Paolo si asciugò la
fronte, fissando lo schermo.
La casa era silenzio puro. Sempre meglio che sentire dei passi, però lo metteva a
disagio. Tirava una brutta aria. Facciamo in fretta, si disse, battendo i tasti
con vago disgusto.
Non voleva pensare a ciò che aveva accanto, accasciato sulla sedia.
Controllò i file recenti, lultima data di modifica, tutto, ma non trovò nulla di
interessante. Tranne una cosa. Uno strano collegamento sul desktop, etichettato come
Dario Ferrazzi.
«Perché devessere così stupido, da dare il proprio nome ai programmi?»,
borbottò Paolo. Sapeva di non averlo visto, quando era stato lì la volta scorsa. Forse
era una perdita di tempo. Però...
Quasi gli venne un colpo, lanciandolo. Non successe nulla di orribile o spaventoso:
saprì solo una finestra di dialogo. Ma la finestra non avrebbe dovuto chiamarlo per
nome.
«Paolo, sei tu?», gli chiese una stringa di testo.
Deglutì a vuoto. Cosa si deve dire a un programma, in questi casi? Non lo sapeva. Sapeva
però che non gli piaceva per niente, quella storia.
«Sì, sono io», digitò in risposta. «Tu cosa sei?»
«Sapevo che saresti stato così idiota da accendere il mio computer...»
«Il tuo...», poi si morse la lingua. Guardò il corpo lì accanto. Possibile?
Possibile? No, decisamente no. C'è un limite anche all'assurdo.
«Spiegami cosa significa», scrisse.
«Inutile, non lo capiresti.»
«Grazie della considerazione, eh?»
«Ci conosciamo dall'università, Paolo, lascia perdere. Non hai capito neanche i fogli
sul tavolo, giusto?»
Fissò di nuovo il corpo, poi lo schermo. Possibile? Si asciugò il sudore sulla
manica.
«Sei Dario?», scrisse, tremando.
«Sì.»
Cristo!
«E dove sei?»
«Al 127.0.0.1, te l'avevo detto.»
«Dunque non era la solita stupidata. Sei davvero al 127.0.0.1?»
«Non lo vedi? Mi hanno beccato, ero distratto.»
«Chi? E come? Spiegami cosa significa questa storia. Subito!»
«Un nuovo virus. Molto bello. Colpisce l'utente, non il computer. Credo sia sperimentale:
è un vero onore, per me.»
«Impossibile!»
«Possibile. Opera per forme donda. Si salva sul disco e appena ascolti qualcosa...
ti becca. Cervello formattato e memoria copiata sul computer, come file eseguibile. Hai
capito?»
«No», ammise Paolo.
«Lo sapevo, ma non importa.»
«E i fogli sul tavolo? Cosa sono?», scrisse.
«Il listato del virus. Qualche ora fa lo stavo studiando, mentre ascoltavo un po di
musica. Poi sono finito così.»
«Bella fregatura. Senti», aggiunse subito, «come hai fatto a chiamarmi, poco fa? Mi hai
chiamato tu, vero?»
«Ho chiamato io. È facile telefonare tramite computer, lo dovresti sapere. Non ci vuole
un genio.»
«Ma era tutto spento, quando sono arrivato.»
«Semplice blackout. Devo aver sovraccaricato la linea. Come al solito.»
«Già. Ma adesso io cosa devo fare? Non voglio finire così, se permetti.»
«Non ascoltare nulla. Lavora tramite forme donda, te lho detto. Suoni.
Musiche. È una patch, che modifica ogni file audio. Altro non so.»
«Grazie tante...», digitò, aggiungendo varie bestemmie a voce. Ci mancava solo quello:
preferiva il carcere, piuttosto che il cervello fritto. E in un modo così assurdo, poi...
«Cè unaltra cosa che devi fare», scrisse il programma-Dario.
«Cioè?»
«Formattami lo hard disk, ti prego.»
«Perché?»
«Perché così sparirò. Non è molto divertente, il 127.0.0.1...»
Rimase a lungo a fissare il corpo dellamico, dopo aver chiuso il
programma. Cosa poteva fare, ora? Costituirsi? Cancellare ogni traccia e filarsela,
sperando in bene? Non aveva capito molto, di quella storia assurda, ma quel poco era più
che sufficiente a terrorizzarlo. Sembrava folle, ma aveva un suo senso. Contorto, ma
cera. Quasi una legge del contrappasso.
Dario Ferrazzi era bruciato. Restavano un file sul computer e un cadavere sulla sedia, con
le cuffie ancora nelle orecchie. Grottesco. Inverosimile. Concreto, purtroppo.
«Ci sei davvero, al tuo amato 127.0.0.1... E non ti piace, giusto?», mormorò, con un
sorriso smorto.
Doveva formattare tutto e andarsene. Quella casa gli metteva i brividi, con la notte che
calava. Però non era soddisfatto. Forse poteva scoprire qualcosa di più, per
proteggersi. Mica voleva finire così anche lui! Dario era morto studiando il virus. Che
avesse con sé qualche dato utile per individuarlo? Agiva tramite forme donda, gli
aveva detto. Cioè suoni. Lo guardò meglio.
«Chissà cosa stava ascoltando», si chiese, sfilandogli le cuffie. Potrebbe essere
un indizio, pensava, sistemandosele sulle orecchie, giusto per sapere a cosa devo
stare attento. Paolo aprì l'ultimo file, a titolo puramente informativo.
Volpi di nome, ma non di fatto.