Ritardo

Quando succede, ho come sempre la testa altrove. Sono con Maria, naturalmente. La immagino nel parcheggio semibuio e deserto dell’ipermercato che, sacramentando, si chiede perché non rispondo al telefono. Sono in ritardo. Non è la prima volta. Sono sempre in ritardo, da quando sono nato. È il mio difetto. Sono persino nato con due settimane di ritardo. Ho il cellulare scarico. Il caricabatteria dimenticato al motel in cui ho trascorso l’ultima notte di questo ennesimo viaggio di lavoro. Maria l’ho chiamata prima di partire. 800 chilometri fa.
- Fatti accompagnare al turno da qualcuno. Tornando ti prendo io.
- Arriverai in ritardo.
- Giuro di no.
- Invece sì. Comunque oggi non importa. E poi devo darti una notizia.
- Che notizia?
- Non per telefono. A stasera.
Avevo la testa altrove anche qualche minuto fa, quando la macchina ha come tossito e poi si è fermata. La lucina della riserva era accesa da un po’, ma naturalmente me ne ero dimenticato. Adesso, con due bottiglie di plastica in mano, cammino sul ciglio della strada. Pioviggina. Non passa un cane. È ora di cena. Due chilometri più avanti c’è il benzinaio. Riempirò le bottiglie e chiamerò Maria. Mi manderà a quel paese. Poi mi perdonerà, come sempre. L’ipermercato è subito dopo lo svincolo. 10 minuti da qui. Accelero il passo, fantasticando su quale sia la notizia che deve darmi.
Poi qualcosa mi sfracella sull’asfalto.
Non sento niente. Né dolore, né rumore. Come hanno fatto a non vedermi col giubbotto riflettente indosso? Vedo dall’alto i fari che mi hanno falciato tirare via diritti, quasi fossi stato un moscerino spiaccicato sul vetro. Poi vedo me stesso sull’asfalto. Maciullato, smembrato, gli arti ritorti in posizioni impossibili. Il mio corpo inerme si allontana, diventando sempre più piccolo. Penso che adesso vedrò il film della mia vita. Penso a Maria. Penso che se non avessi finito la benzina stavolta sarei arrivato in orario. Poi, prima di diventare un puntino insignificante, comincio a scendere. Mi vedo sull’asfalto ridiventare grande. Improvvisamente però qualcosa mi trascina di lato, mentre un vento freddo penetra l’essere che sono adesso. Per un istante tutto è immoto, nero, muto. Poi sento una musica, niente di apocalittico, e precipito. Un frastuono e apro gli occhi. È giorno, sono seduto sul sedile posteriore di una macchina, la musica è quella dell’autoradio. È come se fosse trascorso un istante e insieme un tempo infinito. La musica svanisce e dalle notizie del radiogiornale capisco che siamo in questi giorni: il Medio Oriente, la politica, l’ennesima donna violentata e uccisa lungo una qualche complanare. Al posto di guida c’è una donna con un foulard rosso e accanto un bambino di sette o otto anni che mi sorride.
- Ciao - dice.
- Marco! - fa lei, che non può vedermi.
- Mamma c’è un signore.
- Non c’è nessuno. Siamo arrivati.
Siamo fermi davanti a una scuola. È pieno di mamme e bambini. Scendiamo, la mamma saluta Marco e riparte per chissà dove. Marco mi guarda. È speciale. Sorride ma adesso non mi parla. È l’unico che può vedermi. Mi domando perché sono qui. Entriamo nella scuola e in breve siamo in una classe deserta. Lui siede al proprio posto e dispone i quaderni sul banco.
- Ciao, scemo!
Sulla porta c’è un bambino grasso, più grande. So che da due anni pesta Marco, facendosi fare i compiti. Lui è in quinta e Marco solo in seconda. Marco non è scemo. È speciale. Il bambino grasso si avvicina a Marco e gli rifila una sberla in faccia. Provo a dire qualcosa ma non posso parlare, né interagire. Sono qui, ma allo stesso tempo no. È una sensazione strana, come un sogno troppo reale e concreto.
- Mi hai fatto matematica, scemo?
Una seconda sberla.
Marco tira fuori dallo zaino un quaderno a quadretti. Lo apre sul compito fatto e lo consegna al bambino grasso, che scorre con lo sguardo tutti quei numeri e simboli a lui incomprensibili.
- È l’ultima volta - dice Marco.
Il bambino grasso leva lo sguardo, stupito.
- Come, scemo?
- Che ti faccio i compiti.
- Vuoi che ti riempio di botte?
E, mentre il bambino grasso alza la mano, Marco piange e mi guarda.
- Grazie - dice.
Il bambino grasso non capisce, si volta dalla mia parte e per un istante pare vedermi, o almeno così credo. La sua espressione è cambiata, insieme a molte cose in lui. Scuote la testa e si gira nuovamente verso Marco. Abbassa gli occhi.
- Scusa.
E scappa via senza voltarsi. Non toccherà più Marco. Non farà più del male a nessuno. Ero qui per questo? Non ho il tempo di chiedermelo che sento di nuovo quel vento freddo. Un frastuono. Nero. Silenzio. Poi vedo dei puntini arancioni, prima sfocati poi nitidi. Sono palle che rotolano per terra. No, sono arance. È sempre giorno, c’è un ragazzone, grande e grosso, con la fronte prominente e gli occhi incassati, un filo di bava gli cola dalla bocca. In una mano regge una borsa di plastica, nell’altra un sacchetto pieno per metà di arance, le mancanti sono a terra. Gliele ha fatte cadere un ragazzino che adesso se la ride insieme a quattro compagni. Il ragazzone ride anche lui, tutto contento, raccogliendo le arance. Gli altri però cominciano a giocarci a calcio, spiaccicandole per terra. Il ragazzone ha un ritardo mentale e crede che stiano giocando con lui. Una ragazza del gruppo, con i capelli a punta e una collanina di perle colorate al collo, gli strappa il sacchetto facendo cadere le arance rimanenti. Il ragazzone continua a ridere. Non si accorge che lo stanno sfottendo. Però si accorge di me. Mi guarda e piange. Bofonchia un ciao. Si voltano tutti dalla mia parte, non mi vedono ma al tempo stesso sì, anche se forse non con gli occhi. Subito dopo hanno raccolto le arance ancora integre e ridate al ragazzone. Mentre se ne vanno, comincio a precipitare verso l’alto. L’intorno è nero, poi bianco e infine di tutti i colori ma allo stesso tempo trasparente. Freddo, caldo. Nuoto in un fluido familiare, dentro una sorta di amnio tiepido. Sto bene. In fondo vedo un puntino bianco. Mi attira. Sento che è l’uscita e allo stesso tempo l’ingresso di non so cosa. Il punto si allarga fino a diventare infinito. Quando penso a Maria il buco ridiventa finito e scappa. Qualcosa mi tira di lato, freddo, urla, sangue, nero. È giorno in un mercato rionale, una bancarella, una ragazza vende chincaglierie e legge la mano. È speciale. Mi guarda, piange. Perché sono qui? Ruoto su me stesso a velocità impossibile e il corpo, o ciò che è adesso, si smaterializza, schizzando via centrifugato in singoli atomi. È sera, un bar. Una barbona con grosse borse di plastica piene di cose di nessun valore. Mi guarda e sorride. È speciale. Poi lacrime scendono sul suo volto, che subito si diffonde e scompare come vapore nel vapore. Perché sono qui? Ma non sono più qui. Sono da un’altra parte, e poi da un’altra e un’altra ancora, con queste persone che mi guardano e piangono. Perché? All’inizio mi vedono solo loro, poi anche chi gli sta intorno, o forse no. Non importa. Perché chi gli sta intorno cambia lo stesso. Per sempre. Penso che adesso è questo il mio compito. Forse sono loro a chiamarmi. O forse qualcun altro. So solo che loro sono speciali. Hanno qualcosa in più. Un sesto senso che la maggior parte delle volte li rende degli emarginati. E così adesso vago tra loro, da uno all’altro. In una casa, in un ufficio, in una strada, in un locale. Non so da quanto va avanti o se sia mai iniziato. Poi però qualcosa cambia. Il nero tra un episodio e l’altro si allunga. Freddo, tagliente, cattivo, come vento gelido si infila tra i vestiti penetrandomi fino al cuore, all’anima di questa cosa che sono ora. Improvvisamente la paura mi attanaglia, una paura ancestrale e immotivata. Sono paralizzato. Non mi muovo. Poi il solito frastuono. È sera, piove, un parcheggio semibuio e deserto. L’asfalto riflette la poca luce che arriva dalla tangenziale. Maria mi aspetta. Mi telefona e non rispondo. Improvvisamente non è sola. C’è qualcuno con lei. Un uomo nero che transitando sullo svincolo l’ha vista. La spinge contro la parete più buia dell’ipermercato. Perché mi è dato di vedere questo? Maria non è speciale. No. È l’uomo nero a esserlo. Ma non come le altre persone che ho conosciuto. È speciale per un altro motivo...
- La prego - supplica Maria piangendo - aspetto un bambino.
Era la notizia che aveva in serbo per me.
L’uomo nero la afferra per la gola e la dà una sberla violentissima. La strattona per i capelli. Le strappa i vestiti. La riempie di botte. Poi si apre i pantaloni e le è sopra. Dio, no! Faccio per muovermi, per fermare quell’abominio, ma sono paralizzato, impotente. Posso solo urlare tutta la mia rabbia...
Nero. Freddo. Un turbine mi attira rivoltandomi a spirale in tutte le direzioni possibili. È diverso dalle altre volte. Non so come, ma capisco che sto viaggiando in senso opposto. Il frastuono. Sono a bordo di un camion che viaggia in una strada piovosa e deserta. È sera. Mi guardo intorno. Cerco di capire dove sono e dov’è Maria. Perché non sono riuscito a cambiare anche l’uomo nero? Poi comincio a notare i dettagli. Appesa allo specchietto retrovisore c’è una collanina di perle colorate. Annodato alla leva del cambio un foulard rosso. Mi volto verso il posto di guida. L’uomo al volante indossa al mignolo un anello senza valore. Poi mi arriva tutto insieme, come un cazzotto in faccia. La collanina è quella della ragazza delle arance. Il foulard è quello della mamma di Marco. L’anello l’ho visto al dito di una giovane donna alle bancarelle. Sento che all’interno del camion ci sono altre cose che ho visto. Cose appartenute a donne, a ragazze, a bambine. Morte. Violentate. Guardo l’uomo al volante. È l’uomo nero. Adesso capisco perché e speciale. Perché le vite che ha spento gli hanno lasciato addosso qualcosa. E lo hanno fatto attraverso le persone che mi chiamavano e piangevano per me. Hanno lasciato come un odore. Una traccia che mi permettesse di essere qui adesso. Lo osservo. Sembra una persona normale. Poi però il volto comincia a trasformarsi. Le labbra si allargano in un sorriso laido e un solco si disegna tra gli occhi. La punta della lingua esce dalla bocca come a pregustare qualcosa. Lo sguardo fisso sulla strada. Comincia a sterzare sulla destra. Accelera. Poi guardo davanti. A poche decine di metri c’è una macchia verde che si sposta nella pioggia sul ciglio della strada. Ci avviciniamo. La macchia verde diventa sempre più distinta. L’uomo nero la punta, ansimando. Ha un’erezione, eccitato. Poi mi accorgo che la macchia verde è un uomo col giubbotto riflettente che cammina con due bottiglie vuote in mano. Accade tutto in fretta, ma al contempo al rallentatore. Come all’orizzonte degli eventi di un buco nero, il tempo sembra fermarsi. Un tremito irrefrenabile mi assale. Mi contorco in una infinita scarica di spasmi. Afferro il volante e l’uomo nero mi vede. Non capisce. Poi sì. Giro il volante a sinistra. Il camion sbanda, sfonda il paracarro, esce di strada e, lanciato come un meteorite sulla superficie di un pianeta senza vita, si schianta su un pilone del cavalcavia dell’autostrada, disintegrandosi con un fragore metallico, insieme all’essere mostruoso che lo guidava.
Mi volto di scatto. Il camion è un groviglio di lamiere in fiamme che crepitano nella pioggia che scende pigra. Un’esplosione, una sorta di ultimo rantolo, e una lingua di fuoco si alza più in alto delle altre, come la coda di un diavolo morente.
Lascio cadere le bottiglie sull’asfalto bagnato e mi metto a correre. A correre, correre e correre. Pochi chilometri più avanti mi aspetta Maria. Insieme al miracolo di vita che porta dentro di sé.
Prometto che non arriverò mai più in ritardo.

Norman Baker

A dispetto del nome, Norman Baker è italiano. 30 anni, padre irlandese e madre siciliana, con la famiglia è cresciuto quasi sempre in un’isola: Sicilia, Malta, Corsica, Irlanda. Attualmente risiede a Nizza. Per vivere, a seconda della stagione, è imbarcato come pescatore su un peschereccio d’altura o come marinaio sulle navi mercantili lungo le rotte del Mediterraneo e dell’Africa occidentale. A volte si mette a scrivere durante le lunghe ore vuote della navigazione.