Esecuzione capitale

NAPOLI 1840
ESECUZIONE CAPITALE

 

All’alba del 4 febbraio 1840 Napoli fu svegliata dalle lugubri voci di ragazzi:

 

Accompagniamo questa santa anima con sante messe!
Dai bassi, finestre e terrazzi piovevano i grani e i carlini nelle cassette dei questuanti incaricati di raccogliere offerte per riscatto dell'anima del condannato a morte. Alle ore sei di quel mattino Ciccio il pizzaiolo di Borgo Loreto doveva essere afforcato nella Piazza del Cavalcatoio, sull’imbrecciata di san Francesco, fuori Porta Capuana. Quello era il posto per l’esecuzione delle pene capitali. Dalle prime luci dell’alba o quando era ancora notte, la gente dei bassi aveva assiepato la piazza intorno alle forche erette la notte tra il tre ed il quattro febbraio.
Dalle cinque e mezzo di quel mattino uno squadrone di dragoni a cavallo era stato schierato in piazza di fronte e a lato del patibolo da scorta a sua maestà il re e a sua eccellenza il governo. Si temeva che gli assembramenti di popolo potessero essere scintilla di rivolta.
Nonostante il freddo, gli spettatori continuavano ad affluire dai quattro vicoli del Cavalcatore, dalla via di San Giovanni a Carbonara, da Porta Capuana, da Santo Eligio, dalla Carriera grande e dalla lunga arteria dei Tribunali. La gran parte erano donne discinte e scalze, i capelli arruffati come Erinni affluite dai vicoli di Santa Maria la Fede. Erano accompagnate da bravi con un cilindro sghembo in testa, un bastone in mano e un coltello adunco nella manica della giacca. La piazza si gremiva di teste, come spighe di un campo di grano. La fila dei dragoni a cavallo faceva rispettare il limite invalicabile. Improvviso rullo di tamburi annunziò l’arrivo del condannato. Ci fu un gran vocio e molti allungarono il collo per vedere. Pochi minuti dopo le sei apparve in piazza il drappello della fanteria a precedere la carretta con il condannato, le mani legate alla schiena.

La condanna di terzo grado prevedeva che Ciccio stesse scalzo, indossasse calzoni neri e portasse al petto il cartello con la scritta: EMPIO. C’era un prete sul carro ad assistere il condannato. Il carnefice seguiva il carro e teneva una fune con il cappio intorno al collo di Ciccio. Un secondo drappello di soldati chiudeva il lugubre corteo.
La livida faccia del condannato con la testa rapata a zero era cadaverica e l’adipe dalla gorgia e dal ventre, sparito. L’espressione era di angoscia e stupore. Un mondo assurdo lo condannava ed assisteva muto al suo supplizio. Era innocente, ma ciò a tutta quella gente non importava. Importava lo spettacolo della sua agonia e della sua morte. Un canonico lo aveva confessato la sera prima. Nell’ultima confessione aveva ripetuto la sua innocenza. Adesso il canonico lo accompagnava sul carro con gli occhi velati di lacrime. Diceva a Ciccio in un orecchio:
“Coraggio, figliuolo, coraggio!”
Il carnefice prese in consegna il condannato a morte. Ciccio volle dire ad alta voce:
“Popolo napoletano, io muoio innocente.”
I sentimenti di odio per l’assassinio del ragazzo - crimine di cui era stato incolpato Ciccio - stavano facendo posto alla commiserazione. La folla era muta. Si vedeva che alcuni assistevano con raccapriccio alla scena e qualche vecchia si asciugò le lacrime. Ciccio era caduto in ginocchio come un sacco, recalcitrante ad alzarsi. I più gridarono contro il carnefice che lo stava trascinando con forza e gli tirava la fune con il cappio intorno al collo.

 

Il boia fu costretto a sollevarlo e a trascinarlo di peso al patibolo. I tamburi tacquero e l’uomo rimase appeso col cappio al collo. Aveva aperto la bocca e dimenato i piedi. Subito aveva perso ogni forza. Il magistrato di giustizia fece cenno al boia di mettere giù il cadavere.
L’esecuzione fu male eseguita. Gli spettatori rimasero dubbiosi, poi un grido si levò tra la folla e molti cominciarono a gioirne. Il carnefice accortosi che l’uomo respirava ancora, stava per riappenderlo alla forca. Il canonico che aveva accompagnato Ciccio e che era rimasto sul posto, gridò:
“In nome di Dio, ritiratevi. Non avete più diritto di mettere le mani addosso a questo povero uomo agonizzante.”
La folla applaudì e tutti gridarono:
“Grazia, grazia!”
Il magistrato di giustizia fu imbarazzato e alla fine cedette al clamore del popolo e alle antiche leggi che vietavano una seconda esecuzione capitale se il condannato non moriva nella prima. La folla minacciava di fare irruzione per sottrarre il condannato dalle mani del boia. Intervenne lo squadrone dei dragoni a cavallo fiancheggiato dal drappello di fanteria. La folla si ritrasse. Il condannato fu portato in barella nella vicina chiesa di Santa Caterina a Formello, seguito dal canonico. La folla si stava riversando in chiesa con l’irruenza della lava, ma trovò i soldati davanti al portone maggiore ad impedirne l’accesso. Lo spiazzo antistante Santa Caterina a Formello di lato alle carceri della Vicaria fu pieno di gente. A stento la carrozza del presidente della Gran Corte Criminale poté raggiungere la chiesa. Intorno alla carrozza tutti a gridare:
“Grazia! Grazia!”
Scortato dai soldati, il presidente della Gran Corte entrò in chiesa. Dopo pochi minuti lo videro uscire agitato; lo videro entrare in carrozza e lentamente lasciare la piazza tra gente che continuava a gridare:
“Grazia, grazia!”
La carrozza svincolatasi dalla folla, corse per l’angusta Via dei Tribunali, passò per Portala, raggiunse Via Toledo ed entrò nel cortile della reggia.
Dopo un’ora il magistrato uscì dal palazzo reale, salì in carrozza in compagnia di due ministri: di grazia e giustizia e della polizia generale. La carrozza tornò a sostare davanti alla Chiesa Santa Caterina a Formello. Si era sparsa la voce che il re aveva graziato il condannato. Molti erano rimasti sul sagrato aspettando che Ciccio uscisse coi suoi piedi per fargli ovazione. Una voce spense gli animi. Ciccio era spirato in chiesa in conseguenza della strangolamento del cappio: il sangue aveva fatto congestione nel cervello. La folla delusa si diradò. Il canonico che aveva accompagnato lo sventurato andò via. Nessuno poté avvicinarsi alla salma perché un picchetto di soldati e gendarmi impedivano di entrare in chiesa.
Corse voce che la morte del povero Ciccio fosse stata causata dalla polizia contraria alla sopravvivenza al patibolo di un condannato a morte. Dissero che un commissario aveva fatto finta di somministrare all’agonizzante un bicchierino di cordiale e gli avesse messo sotto il naso una boccettina di acido prussico, tossico per il respiro.

 

C’era stato un precedente. Nel 1799 con la reazione borbonica, un avvocato era rimasto per dodici ore appeso al cappio. Quando stavano per seppellirne il corpo, il boia si era accorto che respirava. Aveva chiesto al giudice Speciale cosa si dovesse fare. Gli ebbero risposto:
”Un giacobino deve comunque morire.”
Lo Speciale allora ordinò che l’uomo agonizzante fosse scannato sul posto.

Giuseppe Costantino Budetta