Ho ahimé
pochissimo tempo, ormai, per mettere per iscritto quella successione di eventi che hanno
disperatamente, ed in maniera alquanto forsennata, distrutto la mia esistenza, ma a
chiunque perverrà questo mio dattiloscritto auguro vivamente di non ripetere il mio
errore, e di stare alla larga da lei, in qualsiasi circostanza ella si presenti al vostro
cospetto.
Nonostante senta ormai che le forze stanno abbandonandomi, tenterò comunque di partire
dallinizio di questo mio orribile, eppure assurdamente reale, incubo.
Tutto è accaduto oggi, 16 settembre del 1926.
Io mi ero da alcuni giorni trasferito a Milano a seguito della mia delegazione, da parte
del Ministero, ad un impiego molto meglio retribuito, per quanto possa esserlo il mio.
Difatti, svolgo la professione di insegnante in un liceo, ed un tempo abitavo a Rovigo,
luogo dove, oltretutto, sono nato, circa trentanni fa.
Una volta abbandonato il mio paesino natale, dove in precedenza insegnavo, ed essere
giunto a Milano, presi alloggio in una casupola poco distante il centro della città, un
edificio alquanto antico ma che era stato da poco ristrutturato: erano state murate delle
vecchie zone, che a quanto ne seppi poi, erano fatte di pietra e sassi, come ad esempio la
cantina, mentre la soffitta era stata reimbiancata. Infine, erano state applicate nuove
tegole e rivestimenti al tetto deperito.
Tuttavia larredamento interno era stato quasi del tutto smantellato, eccezion fatta
per la libreria, poiché gran parte dei mobili e degli infissi erano in pessimo stato e si
era già provveduto alla loro distruzione. Ciò mi dispiacque assai, poiché io sono un
discreto amante degli oggetti antichi, e posso certamente stimarmi, con la dovuta
modestia, un sufficiente intenditore in ambito di antiquariato.
Decisi allora, un mattino, a seguito di vari progetti e relativi ripensamenti dettati
dalle necessità, di acquistare dei mobili da piazzare in casa, a sostituzione di quelli
vecchi ormai del tutto consumati dal tempo e dal troppo utilizzo. Mi recai dunque a metà
giornata al mercatino settimanale, da me solitamente frequentato, dove spesso ho avuto
possibilità di trovare dei prodotti dantiquariato discretamente buoni, ed altri
notevolmente migliori, da me senza dubbio considerati degli ottimi affari, nonché una
grossa rarità.
Ma mentre attraversavo il piccolo spazio affollato che intercorre tra una bancarella e
laltra, mi imbattei in una vecchia. Era orribile in viso, grassa e con addosso i
tipici vestiti che indossano le donne gitane. Aveva il volto scuro e scavato da
innumerevoli rughe, due grossi e neri nei sulla guancia destra, ed enormi occhi sporgenti,
che a me parvero quasi stessero forzando le palpebre della femmina per balzarle fuori
dalle orbite. Premettendo che a me anche la semplice visione di una zingara possa metter
soggezione, quando urtai la gibbosa vecchiaccia trattenni a stento un urlo di terrore. La
donna bofonchiò una frase, credo, nella tipica lingua zigana, poi fissandomi con quel
volto orribile si rivolse a me, chiedendomi la carità. Tese la mano per indurmi a donarle
del denaro e, quando toccò il mio petto, sconvolto da tale ribrezzo sprofondai nel panico
più totale, e corsi via facendomi largo tra la folla. Ma nonostante il tumulto udii,
distinte come se mi fossero state urlate da dietro il mio orecchio, le parole della
vecchia:
«Non fuggire, misero! Il coccio ti distruggerà!»
Quelle parole esplosero nella mia testa, e si rivelarono per ciò che erano. Mi ero dunque
guadagnato una fattura, oltre ad una pubblica umiliazione.
Quando feci ritorno a casa, il petto mi batteva forte, e pochi istanti
dopo iniziai a percepire una forte fitta al di sopra dello stomaco. Le contrazioni si
ripetevano spasmodicamente ad intervalli regolari, ma di crescente intensità. Era un
dolore paragonabile ad uno sforzo di vomito abbinato ad una scarica diarroica.
Non trovai alcuna cura a quel male, poiché soprattutto mi risultò assai malagevole
trovarvi unorigine, date le promiscue condizioni in cui versavo. Le punture infatti
erano divenute di una violenza assurda, insostenibile dal mio fisico. Colpito poi da una
fitta molto più acuta mi recai in fretta in bagno, dove, appoggiandomi al lavello,
vomitai con tutte le energie che possedevo. Fu davvero qualcosa di anormale, e data la
forza dei conati e la durata degli stessi mi parve quasi di gettar via una parte delle mie
interiora.
Le forze mi mancarono da subito, le ginocchia cedettero sotto il peso del mio corpo ed io,
crollando, battei la testa sul lavabo, perdendo i sensi.
Al mio risveglio, venni accolto da un terribile mal di testa. Una volta
ripresomi, mi resi conto che gli sforzi e i dolori intestinali che avevano preceduto la
mia perdita di conoscenza erano del tutto scomparsi, ma non se ne era andata la fiacchezza
che mi aveva reso tanto debole.
Non riuscii però a rimettermi in sesto, e neppure a sistemarmi in posizione eretta!
Strisciando allora come una serpe raggiunsi la porta del bagno ed uscii verso la sala.
Aggrappandomi ad un mobile riuscii finalmente a mettermi in piedi, ma quando lo vidi,
però, temetti di nuovo di svenire, e stavolta per lorrore!
Difatti, un vaso di coccio nero era apparso sulla mensola della mia libreria.
Ricordo più che lucidamente, nonostante le condizioni in cui mi trovavo, di non aver mai
comperato tale oggetto, tantomeno nessuno laveva mai introdotto nella mia casa. La
testa mi vorticava abbandonata al terrore più assoluto, e mentre i miei occhi erano fissi
sul coccio scuro mi tornarono in mente le stridule parole della vecchia zingara.
La sofferenza era immane, insopportabile, indicibile, tanto che dimenticai persino di
respirare per il dolore che tutto ciò comportò. In un raptus di disperazione e follia,
spinto dal tormento che banchettava col mio afflitto cervello, afferrai il tagliacarte
sulla mia scrivania e me lo conficcai nello stomaco, tentando di smorzare per sempre quei
dolori atroci, ed esalare lultimo alito di vita presente nel mio corpo.
Ma non accadde nulla! Non percepii il benché minimo dolore, e dalla ferita,
seppur di modesta entità, non fuoriuscì neppure una goccia di sangue! Travolto allora
dal vortice della pazzia e dellira mi gettai sulla libreria a me di fronte, afferrai
con rabbia il vaso di coccio nero e lo scaraventai a terra, riducendolo in mille,
minuscoli pezzi.
Barcollante e stordito dalla scarica dadrenalina vidi allora un barlume azzurrino
sprigionarsi dai cocci del malefico vaso, e che poi, addensatosi in una nuvoletta di
vapore indefinita, salì verso lalto avvolgendomi nelle sue indistinte spire. Sentii
proprio allora, di botto, esattamente come lo sento ora, il dolore che si dipanava
violento e straziante dal mio stomaco, precisamente dove avevo conficcato il tagliacarte
e, percependo la vita fluire via dalle mie membra, imprecai contro quella vecchia zingara
con tutta la rabbia che ancora possiedo.
Maledetta donna! Aveva rinchiuso la mia anima nel vaso.