La getta a terra,
poi mi guarda e ritrae le mani, di colpo spaventato.
«Chiudi la porta!» sbotto, e Luca ubbidisce. «Dove l’hai presa?»
Lui alza le spalle, non parla da più di tre anni, figuriamoci se lo fa ora.
Ha la maglietta e le dita sporche di sangue, un segno rossastro gli macchia
il viso tra la barba sfatta e la cicatrice.
Vomito, mi appoggio al bancone per non cadere. Con tutti quei costumi
attorno a me, secchielli, riviste e puttanate balneari, non ho idee, non so
cosa fare, fortuna che siamo a maggio, un maggio piovoso e inutile, e la
gente se ne sta ancora lontana da Jesolo.
«Portami dove l’hai presa, perdio!»
La testa è lì che mi guarda, un muso schiacciato, i capelli verdastri,
incrostati, il collo reciso, la pelle molle, marcia. E io vomito di nuovo.
Appiccico un TORNO SUBITO alla porta del bazar, lascio
fuori il resto della roba, chi se ne frega. Prendo al volo una maglietta.
«Cambiati, ché sembri un macellaio», ordino a Luca.
Mi conduce al faro, quindici minuti di sabbia fredda e siamo al solito
posto, gli scogli dove si è spaccato la testa tre anni fa. Momenti
terribili, per fortuna lui non li ricorda, anche se torna sempre qui a
fissare le onde.
Andiamo più avanti, sul bordo dei faraglioni, e il mare ci sfida, mosso e
rumoroso.
«Non vorrai mica scendere...», e invece sì, vuole.
Non un’anima viva, qui attorno, così dico a Luca di stare fermo, ché scendo
io. Faccio piano, lento, se scivolo finisco in mare e poi non torno più su.
L’acqua colpisce la scogliera e si insinua in una
fessura, una grossa crepa. Impossibile vederla, nessuno oltrepassa il bordo:
tuffandosi si muore o si diventa Luca. Sbircio nella fenditura, una striscia
buia, densa.
Una bestemmia come carica e mi stringo per entrare, il mare che mi bagna. È
una cavità minuscola, gli scogli sono soffitto e pareti. Si vede poco, ma
dopo qualche istante le calpesto: altre teste, sciupate dall’acqua, orfane
di sguardi.
Diocristo, non solo! Un paio di gambe, mani, un braccio.
Il vano prosegue, passa sotto la scogliera, tortuoso, e sembra scavato –
grattato – mi viene da pensare.
Il fetore è tremendo, vorrei uscire, ’fanculo, butterò la testa
nell’immondizia in qualche maniera e ciao, ma lo vedo, e mi blocco.
Rannicchiato, come avesse freddo, o non sapesse muoversi, un fagotto di
carne smunta e logora. Una coperta di pelle umana, squarci, tranci di
epidermide incollati l’uno all’altro con alghe e sabbia e chissà cosa, e da
sotto spunta una testolina, un grugno triangolare, vagamente umano: capelli,
occhi, naso, ma zampette schifose al posto delle labbra, che si muovono
impazzite. E ai lati, le braccia che diventano chele, pesanti, deformi.
Prova a dirmi qualcosa, la bestia, ma non ho orecchie, solo fiato. Urlo,
scappo, nient’altro.
Luca è una statua, non vuole andarsene da lì, come avesse i piedi incatenati. Lo trascino a forza fino al bazar. Negli occhi, quel miscuglio osceno di mare e terra. Nel petto, la certezza che mio fratello tornerà, presto o tardi, ai suoi scogli.