Quando vidi
la cisterna, avevo già percorso millecinquecento chilometri, come ogni estate, per
tornare al mio paese natale.
Ne ero certo, quella cisterna verticale lanno prima non cera.
Mi fermai. Era lì, altissima e austera e sembrava guardarmi con il suo volto senza occhi.
Scesi dallauto, mi avvicinai al monolite arrugginito e rimasi immobile, catturato. Poi vidi la minuscola scaletta, che da terra si aggrappava alla cisterna come un parassita. Salii e mi affacciai dentro il cratere che sbadigliava verso il cielo. Dalle profondità della cisterna si sollevò un debole rumore, che lentamente si trasformò in una voce, prima flebile, poi più forte e chiara, finché distinsi alcune parole, roche e malate, che cantilenavano: Tu il primo. E poi gli altri. E ad accompagnare quella voce, qualcosa di nero e pesante cominciò a salire, lento, verso di me. Poi più nulla.
Ora sono qui, in ospedale.
Non capisco; non riesco a muovermi, mi sento diverso, sento le gambe gonfie e strane, ma
per la prima volta sto bene. Non ho più rabbia, né odio. E non ho più paura. Non ho
più paura delle persone. Mi sento, per la prima volta freddo e inattaccabile.
Linfermiera è fuori dalla mia stanza. Mi guarda, è pallida.
- Dottore! Dovè il paziente della 61?
- Non cè nessun paziente nella 61.
- Ma... stamattina cera un ragazzo. Stava male, aveva fatto una brutta caduta e
aveva le gambe piene di... ruggine, credo. Era come se la ruggine le stesse ricoprendo, se
le stesse mangiando.
- Le ripeto, non cè nessuno nella 61.
- Ma, dottore...
- La smetta!
Arrivò il medico, entrarono nella mia stanza. E mi guardarono.
- Mi dica, infermiera, vede qualche paziente in questa stanza?
- No... vedo solo una vecchia cisterna arrugginita appoggiata sopra il letto.