Il fienile

Ricordo che io e mio fratello Giorgio, da piccoli, passavamo le vacanze estive a casa dei miei zii, nelle campagne dell’alto cuneese. Gli zii abitavano in un agglomerato immerso nei prati, costellato da cascinali che interrompevano la rilassante monotonia del verde. Venivamo accompagnati dai nostri genitori che, dopo aver pranzato con i parenti, se ne tornavano ai lavori di città. Giorgio piangeva sempre quando la mamma lo salutava dal finestrino dell’auto, spedendogli baci volanti con la mano. Lui balzava più in alto che potesse per raccoglierli, e le lacrime gli schizzavano nell’aria, come gocce di rugiada smosse da uno stelo d’erba piegato dal vento. Io non mi commuovevo più di tanto, in fondo si trattava di una sola settimana, e poi gli zii erano adorabili. E anche Giorgio si sarebbe divertito un sacco. Forse quei pochi anni che ci dividevano lo condizionavano emotivamente, in fondo aveva solo sette anni.
Trascorrevamo le mattinate in bicicletta accompagnando nostra zia nelle compere. Era sempre bellissima, avvolta in quei vestiti estivi colorati e sbocciava nella sua anima da adolescente. Con lei tutto era più caldo e luminoso. Percorrevamo allegramente i pochi chilometri per raggiungere la prima bottega di alimentari, situata nel paese vicino. Adoravamo quella strada da poco asfaltata, ad una sola corsia, accompagnata ai lati da immense distese di campi adibiti all’allevamento delle lumache. Ci fermavamo spesso ad osservare quei gusci appesi alle reti.
Nelle prime ore del pomeriggio invece restavamo in casa perché il caldo era soffocante e lo zio temeva che ci buscassimo un’insolazione. Giorgio non era della stessa idea e lo manifestava con capricci e pianti ininterrotti. Lo zio gli spiegava che preferiva di gran lunga un nipote spazientito piuttosto che febbricitante, si comportava come un vero e proprio padre in affitto. Ma mio fratello non ci sentiva. Dovevo essere abile a far passare quel paio d’ore cercando di fargli dimenticare il malumore, magari dietro ad un gioco di società o soldatini plastificati, in attesa che il sole ci concedesse un po’ di tregua. Adoravo mio fratello ma quando si intestardiva era davvero insopportabile. Quando finalmente scendevamo in cortile, Giorgio si destava dai suoi mugugni e scaricava la sua energia su tutto quello che un genitore si sente moralmente in obbligo di vietare. Inseguire le galline, prendere a pallonate la facciata della casa, giocare con i bastoni raccolti nella legnaia. E io dietro di lui, assicurandomi che non si facesse troppo male, sempre alle prese con ginocchia sanguinanti e magliette sudate.

L’unica zona della casa che lo rendeva placido era il vecchio porticato. Mia zia ci disse che il vecchio proprietario della cascina lo utilizzava come deposito per il trattore, il carro e tutti gli altri mezzi adibiti alla coltivazione dei campi, più un intruglio inimmaginabile di attrezzi, ferraglia e mobili tarlati. La zona superiore del portico fungeva da fienile ma neanche il fattore l’aveva mai utilizzato, considerato che non possedeva bestiame. Di quel piano dimenticato si intravedevano soltanto le pareti nude di mattoni e le travi del tetto, ospitanti ragnatele intrise di polvere e nidi di piccioni. Lo si poteva raggiungere soltanto mediante una scala a pioli che gli zii, opportunamente, non dimenticavano mai appoggiata alla soletta.
Sinceramente, come tutti i luoghi misteriosi, ne avevo timore. Come se quel fienile ospitasse segreti inviolabili ed esseri terrificanti. Giorgio invece lo abbandonò presto nel dimenticatoio del suo cervello, almeno fino alla penultima sera della nostra vacanza. Non fu una giornata particolarmente calda quella, perché un leggero strato di nuvole velava il cielo rendendolo di un blu sfocato, un pomeriggio perfetto per essere assaporato fino all’ultima goccia di luce. Invece la passammo in camera da letto, Giorgio con qualche linea di febbre e io accanto a lui, a tenergli compagnia e tentar di rendergli meno amara la sosta forzata. Non ne voleva sapere, si dimenava nel letto come un matto, tutto sudato e inferocito che quasi sembrava una tigre incatenata dentro una gabbia da circo. La zia gli portò una torta al cioccolato, sperando di addolcirlo un poco. Lui scaraventò il vassoio a terra, in un’esplosione di cocci di ceramica e pezzi neri di torta.
La sera io ero distrutta, più psicologicamente che fisicamente. Non era semplice stare dietro ad un ragazzino con quei modi di fare. Allora mio zio - appena tornato da lavoro - ci raggiunse, sedendosi sul bordo del letto e intimandomi di uscire dalla stanza. Io obbedii solo in parte, rimanendo ad origliare dietro la porta. Sentii lo zio che cercava vanamente di tranquillizzare mio fratello con vane promesse come domani, se ti sentirai meglio, andremo a prenderci un bel gelato e altre banalità del genere. Si capiva che non aveva mai avuto figli, si trovava davanti un vero osso duro e così facendo non sarebbe andato da nessuna parte. Quasi me ne stavo andando di sotto, sicura che a breve mi avrebbe seguito, affranto e deluso, e non volevo farmi sorprendere ad origliare, quando sentii la parola vecchio portico. Mi bloccai, come rapita da una melodia incantatrice, concentrandomi perché il tono della voce dello zio si era abbassato parecchio, come se stesse rivelando un segreto impronunciabile. Anche Giorgio smise di singhiozzare.
Io non capii del tutto il racconto, ma ascoltai quanto mi bastava per osservare con tutt’altri occhi quel fienile diroccato.
Ottanta anni prima, quando le macchine ancora non erano di uso comune e le persone mangiavano nello stesso piatto, in quella casa viveva una famiglia numerosissima. Quindici figli, cinque femmine e dieci maschi. I genitori coltivavano la terra e allevavano animali da cortile, ma costruirono lo stesso il fienile sopra la rimessa per gli attrezzi, tale e quale a come lo vedevamo noi. I figli maschi erano tanti e vivaci, e non trascorreva giorno che non combinassero qualche marachella. Allora il padre di famiglia, disperato, decise di punirli. Comprò un paio di balle di fieno e le posizionò appena sotto il bordo del soffitto del porticato, vi appoggiò una scala a pioli e fece salire uno ad uno i figli sul fienile, li fece sedere sul bordo del pavimento e a turno ordinò loro di calarsi di sotto, rimanendo a penzoloni nell’aria reggendosi soltanto con le mani al bordo. Il primo di loro che fosse caduto avrebbe ricevuto una sonora punizione. Soddisfatto, rimase ad osservare la scena, il bastone in pugno pronto a scaricare sulla schiena del malcapitato la dose che meritava. Ma i fanciulli, più furbi di lui, contarono fino a tre e si lasciarono tutti assieme, atterrando sul fieno sottostante e alzando una nuvola di polvere, si misero a ballare e cantare mentre alcuni di loro ripercorsero la scaletta per concedersi un altro salto. Il padre allora, sentitosi gabbato, afferrò per un orecchio il più piccolo di loro e lo trascinò di nuovo sulla scala a pioli. I due salirono sul fienile e lì rimasero, in attesa che al padre venisse in mente qualcosa di veramente originale. Una punizione che nessuno dimenticasse. Si guardò intorno e notò, lungo la parete laterale, una sorta di finestrella nel muro, dove il trave centrale che sorreggeva il tetto si conficcava nei mattoni. Un adulto non ci sarebbe mai passato ma un bambino... Obbligò il figlio ad incunearvisi dentro, mimandogli con le mani la manovra che avrebbe dovuto eseguire, la stessa che aveva effettuato in precedenza assieme ai fratelli. Il piccolo piagnucolava e stringeva la gamba del padre, supplicandolo di risparmiargli quella prova perché la finestra era troppo alta e lui aveva paura. Allora il padre si chinò e gli parlò all’orecchio, assicurandolo che ci sarebbe stato lui di sotto per acciuffarlo al volo quando si fosse lasciato andare e che si trattava soltanto di una finta per spaventare i fratelli più grandi. Il bambino accettò mentre lacrime salate gli segnavano il viso macchiato di polvere, facendolo assomigliare ad un guerriero indiano. Il padre sollevò il figlio dalle ascelle e lo insinuò nel buco del muro, reggendolo dalle braccia. Il bambino tastava il muro esterno del portico con i piedi, senza percepire alcun appiglio. Solo mattoni lisci. Si aggrappò al bordo della finestrella con gli avambracci mentre il padre lo accarezzò sulla guancia, rassicurandolo che sarebbe andato tutto per il verso giusto, poi scese giù per la scala a pioli. Per qualche instate il bambino fu felice di aver accettato, da quella posizione così alta vedeva il tetto della casa e i piccioni che zampettavano da una tegola all’altra, poi il peso del suo corpo iniziò ad affaticargli la presa, procurandogli graffi e tagli sui polsi e nelle mani. Quando il padre posò i piedi a terra il bambino già non ce la faceva più, reggendosi soltanto con le mani al bordo del buco, proprio come aveva fatto con i fratelli lungo la facciata del fienile. Soltanto che lì c’erano tre metri d’altezza e il fieno come cuscino, dove si trovava lui i metri erano almeno 7 o 8. Il panico gli salì dallo stomaco, succhiandogli forza e appesantendogli le gambe come se avesse legati alle caviglie due blocchi di marmo. Stava mollando la presa e un grido di terrore gli si congelò in gola. Quando il padre svoltava l’angolo del portico, il piccolo stava precipitando al suolo mentre i fratelli ululavano per l’orrore.

 

Non credo che raccontare storie paurose serva a tranquillizzare un bambino. Io non lo farò con i miei figli, dopo quello che è successo a mio fratellino Giorgio.
Ricordo che dopo aver ascoltato la storia di mio zio, ho gettato poche occhiate furtive al quel portico maledetto, come se avessi il timore che mi contaminasse in qualche modo. Era tutto vero o il semplice frutto della fantasia popolare? Non mi importava, dopo quella sera desideravo soltanto tornare a casa con i miei genitori e dimenticare la storia, il portico, forse anche i miei zii, almeno per quell’anno. Non badai più di tanto al comportamento di mio fratello, il pomeriggio successivo. Se ne restò calmo e tranquillo a dondolarsi sull’altalena in giardino, poche parole e capelli asciutti dal sudore. Io non mi preoccupai per niente, era un discolo ma aveva anche le sue pause! Quando arrivarono i miei genitori, Giorgio era sparito. Subito non ci diedi peso, credevo si trattasse di un altro dei suoi stupidi scherzi. Poi iniziò un sottile, inesorabile panico che avvolse la mia sicurezza di sorella attenta e sicura di sé. Giorgio era davvero sparito. Lo trovò mia zia, appeso a quella finestrella del fienile, nella parete laterale appena sotto al trave che reggeva il tetto. Penzolava dal bordo dei mattoni e dimenava le gambe sulla parete liscia. E rideva, rideva come un isterico. Mio padre si gettò in una disperata corsa urlando il nome del figlio, seguito da mio zio. Entrambi avevano il volto bianco come il sale. Io non guardai, celandomi gli occhi con le mani mentre mia mamma mi abbracciava, singhiozzante.

 

Per diversi anni non volli conoscere i particolari di quella tragedia, mi bastava andare nella cameretta vuota di Giorgio e piangere ininterrottamente sul lettino rimboccato. Da quel giorno d’estate è passata una vita e io ho imparato una cosa: non racconterò mai una storia del genere ai miei due bambini.

Marco Cattarulla