Se fossi
un’ombra, ti apparterrei. Se fossi una sedia ti aspetterei.
Mi hai scritto così sul muro della cucina, bagnandoti la mano col vino
rosso, per vedere se mi incazzavo. Con la vernice hai ripassato la scritta,
rincorrendo la tua calligrafia.
Così resterà per sempre, mi hai detto, e ho pensato che eri impazzita, ma ti
ho picchiato e scopato lo stesso.
Quando sei andata a dormire, zoppicante e ubriaca di schiaffi, ho cercato di
pulire, ma mi sono portato nei sogni solo una lunga striscia rossastra.
Ti aspetterei, erano le uniche parole leggibili.
Sei riuscito a migliorarla, hai bofonchiato la mattina dopo, sputando
cereali masticati.
Ti ho guardata, ho capito che non scherzavi e ti ho odiato di più.
Me ne sarei dovuto andare, ma era casa mia, e ho cacciato te.
Il giorno dopo ti ho trovato in cucina.
Preparavi uova strapazzate e indossavi una delle mie camicie.
Avrei dovuto chiederti perché sei tornata, ma ti ho detto solo di abbassare
il volume.
Eri attraente e avevo fame.
Dopo l’ultimo boccone ti ho preso a pugni fino a spezzarti le costole, ti ho
afferrato il collo e ho cominciato a stringere.
Vattene, ti ho chiesto tra le lacrime.
Tu non hai risposto.
Quando ti sei rialzata, un’ora più tardi, hai sputato un dente sulla
moquette, poi l’hai gettato nel water assieme a una ciocca di capelli.
Hai sorriso e mi sono tolto la cintura, chiedendoti di spogliarti.
La sera strisciavi, livida, pulendo le gocce di sangue con uno straccio.
Mi è piaciuto sai, hai detto dalle labbra spaccate, mentre stavo uscendo.
Anche a me, ho pensato, chiudendoti dentro a chiave.
Sono passate due settimane.
Tu cucini a fatica, zoppichi per casa come una marionetta difettosa.
Porti di stanza in stanza la tua risata sibilante.
Ieri ti ho baciato e non lo farò più. Infilavo la lingua nella fessura
lasciata dagli incisivi, circondata da labbra grigiastre. Puzzavi di topo
morto. Scopandoti, le dita sono sprofondate nelle chiappe. Sotto le unghie
mi è rimasta abbastanza carne per un panino, ma l’ho data al gatto.
La sera, nella minestra, ho trovato un’unghia, e non ti ho rimproverato. Sto
imparando a trattenermi, perché so che ti dà fastidio. E poi che altro
potevo farti?
Mangiarti un braccio? Bruciarti gli occhi? Aprirti la pancia e infilarci una
mano?
Oggi ti ha cercato Francesca.
Quando ha suonato il campanello ti sei nascosta in camera.
Sono tre settimane che non viene in centro, ha detto. C’è?
Tu hai salutato da dietro la porta, hai parlato di allergie, irritazioni,
pustole.
Francesca mi ha guardato strano e se n’è andata in fretta.
Ancora, mi hai detto quando sono entrato.
Ma io non ne ho più il coraggio.
L’ultimo pugno ti è sprofondato in un seno, tirandosi dentro il vestito.
Ti ho ricucita, mentre tu sgocciolavi, giallastra, sul pavimento.
Ripenso al giorno in cui ho continuato a stringere, invece di lasciarti
respirare.
Ancora, mi ripeti strappandomi via il ricordo. Ancora, vorresti ripetere.
Ma la mandibola ti tradisce, restando appesa a una striscia di pelle
nerastra.