Realizzai
che il mio cuscino si mangiava i sogni quando notai che era ingrassato. Si era fatto
gonfio, e anche se non posso dire se fosse leggermente più pesante o meno, pareva
riempito di qualcosa di fluido, piuttosto che delle solite sostanze piumose sintetiche e
anallergiche.
Continuai a sognarci addosso per mesi, dopo aver sigillato con ago e filo gli spazi tra un
bottone e l'altro. Ogni sera, prima di addormentarmi, facevo attenzione che la mia guancia
sprofondasse quel tanto e cercavo di muovermi il meno possibile, prendendo sonno. Ad ogni
risveglio in cui sentivo la mente vuota e leggera sapevo di aver sognato e di aver dato in
pasto i sogni al mio guanciale.
Decisi di procedere quando la mia faccia sprofondava a tal punto da rendermi difficoltoso
il respiro. Il cuscino appariva come un'enorme sacco traballante, di un colorito che
sfumava il grigio col nocciola.
Inizialmente incisi la federa, in un parto cesareo di piumini umidicci e svolazzanti.
Dentro, tutto era mischiato ad un fluido grigio-marrone, che pareva spostarsi ogni volta
che avvicinavo le dita. Con una pazienza maniacale, armato di una pinzetta per le ciglia e
di una lente d'ingrandimento, tolsi tutti i piumini più grossi, poi i ciuffi più
piccoli, poi i singoli peli bianchi e invisibili... o quasi. Dopo tre giorni, alimentato
dall'impeto febbrile della creazione mischiato al tremito nervoso delle troppe lattine di
coca cola e bottiglie di rum che consumavo per tenermi sveglio, riuscii ad ottenere la
materia prima che avrei lavorato: un coagulo fluido di sogni, che si muoveva e scivolava
tra le dita come fosse vivo.
Non vi descrivo tutti i trattamenti chimici e meccanici al quale sottoposi quella massa
informe. Usai il ghiaccio e la fiamma, solfuri e nitrati, l'aria fredda e il vapore,
setacci a maglie sottilissime e congegni in grado di sminuzzare e polverizzare finemente.
Per giorni non feci altro che nutrire il mio desiderio di sonno con l'eccitazione. Il
primo successo fu la separazione, con la quale, attraverso un complicato sistema di
alambicchi e reagenti, riuscii nel miracolo di dare ad ogni sogno il suo colore
originario. Nell'istante in cui ciò accadde, travolto dall'emozione, svenni.
Mi risvegliai col terrore di aver sognato tutto, di non aver fatto altro che regalare un
sogno lunghissimo al mio cuscino, ma la federa sventrata, gettata in un angolo, mi
riportò subito alla realtà. E la realtà era sfolgorante di trionfo. In una enorme
bacinella di plastica, colma fino all'orlo, si muovevano senza mescolarsi, questi grossi
lombrichi gommosi che erano i miei sogni. Li guardavo brulicare come goffi animaletti
privi di un dietro e di un davanti. Commosso, non riuscii a trattenermi dal piangere.
Ce n'erano di diversi colori e diverse sfumature così, usando un pinza per i dolci,
cominciai a catalogarli, separandoli in alcuni capienti barattoli di vetro. Provai anche a
raccoglierli con le dita, ma sfuggivano, scomponendosi in mille goccioline minuscole che
si ricomponevano appena i polpastrelli si erano chiusi a vuoto. Etichettai il coperchio di
ogni recipiente con un nome che sceglievo al momento, con una fantasia ubriaca di
havana-cola e stanchezza, pensando che da lì e per sempre quei nomi avrebbero
contraddistinto il mio, scopritore della tassonomia empirica dei sogni.
I Sogni-Cielo assumevano tonalità che sfiorando il grigio chiarissimo arrivavano
al turchese e si muovevano lentamente, come fossero stanchi, emanando un profumo dolce, di
pasticceria. I Sogni-Edera erano più sottili, striati di verde scuro, e si
arrampicavano sulle pareti del contenitore per qualche centimetro, poi si gettavano sugli
altri, rimbalzando con uno squittio di gioia. Pareva facessero le capriole. Continuai
così per ore, in preda al delirio metodico di uno scienziato esultante. Separai i Sogni-Quercia
dai Sogni-Altalena, i Sogni-Vaniglia dai Sogni-Capriccio, quelli Riverbero
da quelli Scintilla. Alla fine, dopo ulteriori etichette e separazioni, ne contai
ventuno: un intero alfabeto onirico che brulicava e ribolliva, spandendo profumi e rumori
di ogni sorta.
Seduto di fronte a quel tripudio di vasi colorati decisi che era venuto il tempo di dare
un senso alla mia scoperta. Alzai il coperchio dei Sogni-Oceano, tutti blu cobalto,
con piccole striature biancastre come la schiuma delle onde; ne afferrai uno grosso, lungo
almeno 5 o 6 centimetri, e come fosse uno di quei vermi gommosi delle bancarelle al Luna
Park, lo mangiai... Assaporandolo sentii il sapore dell'acqua salata e delle granite allo
yogurt, il canto dei gabbiani e del ladro di turno che vende il cocco a 2 euro al pezzo,
le curve dei seni mescolate a quelle della sabbia. Tutto questo come un vero, autentico,
sogno ad occhi aperti. Assaggiai tutti gli altri sogni, nessuno escluso. Fu come spegnere
un'estasi con una successiva e con un'altra ancora. Ero riuscito a dare un senso nuovo e
perfetto alle parole "sognare ad occhi aperti"!
Il mio trionfo, però, durò solo pochi istanti. Prima avvertii delle fitte sempre più
forti al ventre, poi la pancia cominciò a gonfiarsi a dismisura, tendendomi la pelle fino
a strapparla. Travolto da un dolore che non credevo fosse concepibile, sentii il mio
stomaco spaccarsi dentro all'addome. Svenni prima di vedere la mia pancia esplodere e le
mie interiora imbrattare il muro. Non potevo immaginare che un sogno ubriaco accresce il
suo volume di almeno un centinaio di volte.