Due strisce
di eroina velocissime: il solito leggero bruciore al naso, due tirate forti con le narici
e in gola si sentiva già quel gusto amaro, quel sapore di merda che ormai abitava in lui
da molto tempo.
Cominciò a saltare, a tirare pugni al muro, poi si accese una sigaretta; la divorò, tiro
dopo tiro, quasi come fosse la prima dopo tanti mesi.
C'era molta sporcizia in casa, c'era puzza di marcio. Nel lavello si accumulavano i resti
di cibo, i bicchieri sporchi, i piatti col sugo incrostato, le mosche.
"Quante mosche porca troia!", lo diceva sempre e sorrideva.
Si divertiva quasi a vedere tutti quei sudici insettini prendere sostentamento dai resti
del suo cibo. Passava delle ore a osservare i ronzanti volteggi delle sue "amiche
mosche", ormai si sentiva il padre e l'amico di quella sporca colonia volatile
divenuta motivo d'orgoglio.
E ogni giorno si sedeva sulla poltrona davanti alla cucina, affascinato come un
adolescente brufoloso di fronte a una ragazza nuda: "Quante mosche!" si
ripeteva.
Si teneva in disparte, parlava sottovoce, quasi per non disturbare la sordida quiete di
quello stormo di sciacalle casalinghe che popolavano il suo lavello: stava a un paio di
metri di distanza, quasi come un etologo di fronte a un branco di leoni nella savana, non
osava avvicinarsi a quella "grande famiglia".
Di lì a poco instaurò un rapporto a dir poco morboso con le sue mosche: le salutava,
chiedeva loro consigli, pareri e, quando era particolarmente cotto da alcool e polverine,
si sdraiava sul tappeto della cucina, lasciando che il suo corpo fosse accarezzato e
abbracciato da quelle centinaia di zampette, quasi simulando un incontro erotico.
I problemi per lui erano cominciati da un pezzo: la sua ragazza se
n'era andata, voleva cercarsi un lavoro, voleva cambiare aria, ritornare a vivere
normalmente. Facevano quella vita da tre anni ormai; qualche soldo rubato alla mamma,
qualche lavoretto part time, un po' di furti e tutto per mettere insieme quei 20 euro al
giorno per procurarsi la loro "linfa", il loro unico sostentamento, la fonte di
gioie e disgrazie. Vivevano in una vecchia casa di campagna, ereditata dalla ragazza dopo
la morte della zia: si erano rifugiati lì dopo continue fughe da casa, liti con i
genitori e notti passate in questura.
Avevano creato la loro tana, il giusto rifugio per due animali selvatici come loro.
"Non ci resto più qui, me ne vado! Mia madre ha già contattato
la comunità, starò lì un paio di anni. Non ho scelta."
Glielo diceva ogni giorno, ma lui non voleva crederci: le rideva in faccia, non la
ascoltava neanche.
Il giorno dell'addio arrivò: una mattina si ritrovò solo nel letto,
vestito e stordito come sempre. Al suo fianco non sentiva nessuno. Cominciò a urlare con
tutto il fiato che aveva: "Liviaaaaa! Liviaaaaaaa!"
Vide una banconota da 50 euro sul comodino, la osservò quasi sdegnato e infine la
afferrò avidamente. "Fanculo stronza! Torna da quella bigotta di tua madre!".
Non provava rancore, passava le sue giornate da perfetto parassita
domestico: dormiva fino a tardi, appena alzato si faceva la prima pera, poi accendeva il
motorino e via diretto verso il palazzo del suo "rifornitore".
Ogni giorno la stessa routine, i soliti gesti, e i soliti sguardi pieni di ammirazione
verso quel ronzio ammaliante che proveniva dalla cucina.
Il suo cervello era sempre più cotto da quel liquido marroncino che scorreva copioso
nelle sue vene usurate; sosteneva lunghe conversazioni con quelle mosche, chiedeva loro
consigli e il loro ronzare diventava un fiume di parole nella sua testa.
La sua unica vicina, un'anziana signora di più o meno 70 anni, era molto preoccupata per
la sorte del giovane: lo invitava spesso a pranzo, gli offriva un po' di denaro, gli
portava un po' di viveri, medicine, qualche indumento del marito morto qualche anno prima.
Insomma lo accudiva come un figlio, gli stava accanto con quanto più amore possibile.
E lui accettava sempre di buon cuore i doni della donna, sebbene non reagisse proprio
gentilmente quando la signora lo rimproverava di fare una vita troppo sregolata, di non
aver ancora trovato un lavoro e soprattutto di continuare imperterrito a iniettarsi quella
"robaccia".
Un giorno, pressato e minacciato dai creditori, si rivolse, come era
solito fare, all'anziana signora:
"Anna hai mica 30 euro da prestarmi?"
"Ti ho dato dei soldi due giorni fa! Non ho niente, sono una pensionata io!"
"Anche 20 euro, ti prego! Domani te li rendo! Te lo giuro!" le rispose.
"Ti ho detto che non ho niente! Trovati un lavoro e smettila di drogarti! Un giorno o
l'altro ti ritroveranno morto da qualche parte!"
"Fanculo vecchiaccia!" esclamò sottovoce.
Rientrato in casa si sedette sconsolato di fronte alla cucina, in contemplazione delle sue
belle mosche: ronzavano forte, volteggiavano impazienti e gioiose nell'aria calda,
velocissime. Si lasciò ipnotizzare da quel ronzio diventato ormai musica e coscienza al
tempo stesso: chiuse gli occhi e si lasciò guidare da quel vibrare d'ali incessante.
"Uccidila... Uccidila..."
"Cosa devo fare?!" chiese.
"Uccidila... Uccidila... Uccidila..."
Senza pensarci un attimo, afferrò la mannaia che teneva appesa in
cucina, ancora sporca di vecchi resti di cibo: si precipitò fuori, tutto sudato, con gli
occhi ridenti, pieni di follia. La sua preda stava lucidando la grossa maniglia d'ottone
della porta. Appena lo vide cominciò a correre urlando nei campi pieni di alti girasoli
che circondavano le due case: lui le correva dietro, sbattendo nei lunghi e solidi steli
dei fiori; la donna inciampò e lui in un attimo le fu addosso come un cane rabbioso.
Cominciò a colpirla al volto: sentiva gli scricchiolii delle ossa facciali che cedevano
sotto i colpi pesanti del suo attrezzo, le spaccò le mandibole, gli zigomi, avanzando
fino al cranio. Con un paio di colpi decisi infranse le ossa temporali e poi si accanì
sulla sua fronte spaziosa. Colpiva forte, ridendo e ansimando: il sangue fuoriusciva in
abbondanza dalle narici e il fiato della donna era ormai rotto da quella scarica
incessante di colpi inferti con immensa e gratuita brutalità. La terra arsa dal sole era
cosparsa di sangue, frammenti ossei e piccoli brandelli di carne grigia: non ancora
soddisfatto, aprì la cerniera dei pantaloni e cominciò ad urinare di gusto sul quel
volto disintegrato dalla sua follia.
Si fermò ad ammirare il cadavere, come uno scultore di fronte ad un'opera appena
ultimata.
"Porca puttana quanto sei brutta!"
E dopo una breve risata si incamminò verso casa.