Il coltello

Gli uomini si davano da fare, le donne piangevano, la tensione era al massimo, il presidente continuava i suoi sproloqui quando arrivarono i demoni e si portarono giù tutto.
Li sogno ancora, i demoni. Sogno quell’aggregamento informe di mani, occhi, bocche...
Bocche...
Vengono a trovarmi, forse per ricordarmi quello che ho fatto, il male che ho compiuto.
E mentre aspetto che la massiccia dose di barbiturici faccia il loro dovere posso permettermi di imprimere qui le memorie di quel giorno, di quelle ore passate nell’angoscia, in mezzo a una tensione talmente consistente da tagliare con il coltello.
Il coltello... quel coltello dal manico di legno e la lama di latta, una lama che non avrebbe tagliato neppure lo stelo dei fiori che era andato a raccogliere.
E così lo seguivo, lo seguivo sempre il bambino dei vicini, lo seguivo quando andava, col suo coltellino completamente inutile a raccogliere fiorellini da portare alla mamma, o quando si svegliava la mattina per andare a scuola, o quando... o quando... o ogni volta che mi era possibile. E così feci anche in quel torrido giorno di giugno. La scuola era finita e lui se ne tornava a casa spensierato con i suoi fiorellini in una mano e il suo coltello nell’altra. Era bellissimo nella sua innocenza. Era bellissimo.
Non l’avrei mai ammesso allora, ma nella mia mente di diciottenne mi piaceva, avevo sempre sognato di...
Tra un “ciao, piccolo”, un “come ti chiami”, un “mio papà non vuole che parli con gli sconosciuti” e un erezione nelle mutande il passo è breve. Ogni preambolo sarebbe stato inutile, decisi che era meglio andare subito al sodo, prima che qualcuno potesse vedermi. Gli piombai addosso, pianse, gridò, si dimenò, tirò fuori il suo coltello per difendersi procurandomi un taglio sull’avambraccio. Dopo tutto quel pezzo di metallo così inutile non era.
Per appena un attimo mi balenò nella mente il lume della ragione, quel flash, quella scossa elettrica che attiva la coscienza nella cervello del mostro di Frankenstein e che mi fece tornare in me. Stavo esagerando. Se l’avesse raccontato ai suoi sarei finito.
E cosa avrei potuto fare in quel momento? Lasciarlo andare con uno “scusami, piccolo” sperando che stesse zitto o...
Quel barlume di lucidità mi disse di optare per un più pragmatico “o...” invece di lasciarlo andare a casa in modo che potesse spifferare tutto ai suoi. Tanto eravamo nel bel mezzo della campagna, chi mai avrebbe sospettato di me?
Oggi non sono più così convinto dell’allora lucidità della mia mente. Immagino che fossero loro che lo volevano, che mi indussero a farlo. Loro che avevano fame.
Lo spinsi giù, nel baratro. Nel buco.
Sentii le sue grida mentre cadeva, e continuai a sentirle dopo, flebilissime, quando si era fermato.
Fu allora che nella mia mente decisi che era morto. Fu allora che me ne andai e iniziarono gli incubi.
Tornai a casa, cenai sicurissimo che nessuno avrebbe potuto risalire a me e scoprirmi autore dell’atroce delitto. Più le ore passavano e più me ne convincevo, mi convincevo che gli elicotteri, le ambulanze, le jeep e i mezzi di soccorso dei pompieri non erano lì per me.
I rimorsi mi logoravano. Uscii per controllare la situazione e mi trovai davanti ciò che neppure la tv riguardo alla guerra in Vietnam mostrava. Ambulanze, mezzi di soccorso, pompieri, polizia, persino un uomo in giacca e cravatta che riconobbi come il presidente della Repubblica. Dovevo averlo visto qualche volta in tv in qualche discorso ufficiale.
Gente che... che entrava... nel buco...
Il sangue mi si gelò nelle vene... mi avrebbero scoperto? Come avrebbero potuto arrivare a me? Ma che cazzo avevo fatto? Avevo ucciso un bambino.
Non chiedetemi di spiegare come, non saprei come farlo. Quel che so è che tra i tanti, anch’io mi feci calare giù, legato a una corda attaccata al camion dei pompieri.
La claustrofobia saliva a mille. Avevo paura che qualcuno in cima potesse, per qualsiasi motivo, lasciare la corda e anch’io sarei caduto.
E finito.
E perché scendevo, metro dopo metro, lentamente, centimetro dopo centimetro? Un senso di colpa così forte da farmi rischiare la vita? O...
Ancora una volta optai per l’“o”.
Dovevano avere veramente fame...
Li sentivo contorcersi, gridare con una voce disumana, quasi bestiale.
Claustrofobia... paura... un odore nauseante, odore di chiuso, di carne.
Ma tutti questi preamboli non bastarono a prepararmi per quello che da lì a poco avrei visto. Un insieme di mani, occhi, bocche, arti sproporzionati che sembrava uscito da uno di quei film dell’orrore di serie B.
E lui era lì in mezzo, semisvenuto, mentre i demoni lo trascinavano giù lentamente e inesorabilmente.
Non so cosa successe dopo. I medici mi raccontavano che avevo smesso di rispondere, che riuscivo solo a gridare frasi sconnesse, e quando mi tirarono su avevo tutti i capelli dritti come se fossi stato spaventato da qualcosa, spaventato a morte.
Dedussero che avevo avuto delle visioni causate dalla claustrofobia e dai gas nocivi esalati dal terreno, tanto era profondo il buco. Finii anch’io per accettare quella spiegazione, tra l’altro l’unica razionalmente possibile e l’unica che il mio cervello in quello stato potesse accettare.
Era impossibile anche solo immaginare lontanamente che quello che avevo visto avesse una benché minima fonte di realtà.
Mi vennero ancora a trovare, in sogno. Mi trascinavano giù con loro, affamati com’erano, ogni notte.
Ancora adesso.
Ho quarantatre anni. Non mi sono mai sposato. Vivo da solo, senza moglie, amici. Vivo con loro, ormai.
Abito sempre dove allora, vicino al buco, abbastanza vicino da poterli sentire agitarsi. Ci sono tornato spesso a quel buco, e ogni volta è stato come morire. Sentire flebilmente ma così nitidamente i loro movimenti, le loro mani, le loro lingue strusciare sulle loro stesse carni. Sono al buco anche adesso, mentre aspetto che la massiccia dose di barbiturici faccia il suo effetto. Non posso più vivere con il rimorso di aver consegnato un bambino a quell’ammasso informe di cose. Di demoni.
Quando tra poco morirò mi verranno a prendere, o forse mi getterò io di sotto, se farò in tempo, se ne avrò voglia, se morirò cadendo giù. Se mi vorranno.
Mi volete vero? Avete fame, vero?
Morirò. E andrò con loro. Chissà se qualcuno mi ricorderà, forse scomparirò in silenzio com’è giusto che sia.
Ma soprattutto, chissà se qualcuno ricorderà che laggiù, in quel pozzo, da qualche parte, forse c’è ancora quel piccolo coltello di latta col manico in legno.

 

I demoni stavolta sono soddisfatti. Non come in quel giugno dell’81, che con tutto quel casino la sopra non riuscirono nemmeno a digerire in pace.

Amon