Non saprei
descriverla dettagliatamente, dopotutto io la seguivo sempre standole alle spalle. Quelle
spalle alte, quel fisico slanciato. Certo, qualità affatto disprezzabili. Ma non era
quello che a me realmente interessava. A me interessava altro. Io andavo pazzo per i suoi
capelli. Quella cascata di capelli neri, quei lunghissimi fili color dell'ebano, in cui i
miei occhi amavano perdersi. Io ci avrei vissuto solo per quei capelli. Mi sarei dato
completamente a lei, tutto di me le avrei concesso per quei capelli. Eppure ora ne stringo
in mano solo uno, un unico frammento di quel paradiso corvino. Tutto perché a questo
mondo esistono persone che non comprendono appieno i doni che la natura ha loro elargito.
Persone orribili. Ma forse è meglio che io vi racconti con ordine, non credete?
Quante giornate passate a pedinarla... seguirla, o meglio osservarla... pedinarla è un
termine così sgradevole, e fraintende il sentimento di adulazione che provavo. Sveglia
alle 7,30, solitamente: non aveva la macchina, per cui doveva prendere l'autobus. Il
sabato e la domenica invece si alzava alle 8,30, mi lasciava ben un'ora in più a fremere
per il suo arrivo, l'egoista, accoccolata nelle sue coperte rosa con le nuvolette
azzurrine. Durante la settimana la seguivo poco, perché il suo lavoro la teneva occupata
durante tutta la giornata. Dovevo sempre indossare abiti diversi, per non farmi
riconoscere: le persone senza capelli non passano mai inosservate oggigiorno. Vendeva
dolci. Dai bianchi e soffici pasticcini alle rosee torte alla fragola. Che delizia, quel
negozio!
E loro ne uscivano sempre impregnati di quellinebriante profumo, che
sovrastava indubbiamente lo shampoo alla mela verde suo preferito. Allora la accompagnavo
fino a casa, a distanza, poi tornavo a casa mia. La mia stanza così spenta, così buia,
così morta. Io ho sempre pensato che le migliaia di parrucche e manichini che ho in casa
mia non valgano nemmeno la metà dei capelli di lei.
Nei week-end, la cosa si faceva più divertente. Solitamente andava a passeggiare nel
parco, la mia dea solitaria, e si accomodava su una panchina, leggendo un libro. Quante
ore passate a contemplarla, ad avvicinarmi alle sue spalle. Un giorno, mentre ero seduto
di fronte a lei, dall'altra parte del sentiero, un uomo anziano si sedette vicino a me, e
mi disse:
- Lo vedo come la guardi, figliolo. Perché non ti presenti, magari anche tu potresti
piacerle -
Questi anziani dispensatori di consigli. Ma lui non aveva capito.
- A me non interessa Lei - gli risposi - A me non interessa Lei -
Lui ridacchiò, si alzò e andò via. Non aveva proprio capito.
Ma la tragedia avvenne un sabato pomeriggio, uno di quelli freddi, pungenti. Lei, stretta
nella sua giacca invernale, stava camminando tranquillamente, ed io beatamente la seguivo,
immerso nelle mie fantasticherie. Quando, lo fece. Svoltò improvvisamente a destra, ed
entrò in quell'inferno. Da Teresa, urlava l'insegna luminosa. Cominciai a sudare,
temetti per la loro sorte. Decisi di sbirciare all'interno. Dannati manifesti
pubblicitari, e dannate tendine, mi coprivano la visuale! Poche storie, dovetti entrare.
Abbassai il grande cappello che avevo sulla testa, e lo allungai sulla fronte. La donna
osservò stranita la mia lunga chioma bionda, così lucente, così bella, quasi femminile,
quasi non fosse mia. Mi sedetti su una poltroncina, la prima libera che trovai. Cominciai
a torturarmi le unghie. Stava davvero per farlo? Povera illusa, non sapeva in che guai era
andata a cacciarsi. Non conosco alcun posto peggiore di quello: nemmeno tutti gli inferni
di ogni dannata religione messi assieme eguaglierebbero quell'incubo. Indicò una voce su
una tabella, poi si sedette. Confabulò con quel demone col camice, poi si voltò verso lo
specchio. La donna col camice impugnò forbici e rasoio. Stava per farlo! Stava per
tagliare i capelli! Non potevo assolutamente permetterglielo! Accostai ancor più le
tendine, presi a mia volta una forbice, ed un rosso schizzo di sangue palesò come avessi
appena reciso la carotide della donna incamiciata. Presi la mano della mia dea, del
soggetto di così tanti sogni, portatrice di quegli splendidi capelli, e la feci alzare
con dolcezza. Mi fissava immobile, impietrita, incapace anche solo di chiedere 'Aiuto', o
di implorare perdono. Feci fare alla sua carotide la stessa fine di quella del demone col
camice. Quella lurida puttana non era degna di simili capelli, di cotali splendenti
gioielli! Nel frattempo qualcuno era entrato, mi aveva visto, ed era scappato via urlando.
Avevo poco tempo. Presi le forbici. Cominciai a tagliarle i capelli, partendo dalla base,
dal punto più vicino alla cute che potessi, per tenerli il più integri possibili. Quando
la polizia arrivò, ero ancora a metà dell'opera. Intascai una ciocca, infilai in bocca
qualche capello.
Ed ora sono qui, nella mia cella. La ciocca nella mia tasca la hanno presa i poliziotti, e
dei capelli che avevo in bocca me ne è rimasto solo uno. Dormo con lui, vivo con lui.
Vivo per lui. Il più bel capello che io abbia mai visto. E pensare che ci sono persone
talmente orribili che farebbero tagliare simili gioielli.