Notturno dell'Alabama

Dormite in pace
Sto suonando il "ceddo"
Sulla mia "kora"rossa
Dormite tranquilli
Fratelli martiri
Impiccati all'alba
Dai vostri fratelli uomini
Dormite! Dormite!
(Amadou Ly, IMPICCAGIONE)

 

La processione camminava silenziosa attraverso la campagna fuori città. Erano stati fortunati: nessuno degli scarafaggi sembrava averli notati mentre si allontanavano dalle loro baracche, anzi regnava una innaturale quiete in quei vicoli pieni di immondizie, illuminati solo dalle loro torce. Nessun suono di armonica proveniva dalle finestre, né voci roche a intonare i canti dei raccoglitori di cotone.
Il capo di quei bianchi fantasmi, che guidava gli altri e appariva il più robusto anche sotto la candida tunica, si arrestò al limitare di un brullo piazzale, segno evidente che riteneva di essersi allontanato abbastanza dall'abitato. Dovevano distare un paio di miglia da Huntsville, e tutto lì era silenzio e tenebra in quella notte senza luna.
Le altre dieci sagome incappucciate si disposero in cerchio illuminandone il centro, in cui il loro capo si posizionò, fronteggiando la preda di quella sera.
Erano stati fortunati. Uno solo, ma grosso, alto più di sei piedi, proprio come piaceva al capobanda. Dinanzi a lui torreggiava la massa scura di un uomo silenzioso trovato a gironzolare tra le baracche, con indosso solo dei pantaloni strappati. Nel volto nero gli occhi inespressivi sembravano ancora più ebeti. - Grosso come un negro, puzzolente come un negro, scemo come un negro - aveva commentato Ewell mentre quello si faceva portar via senza storie.
Il capo si spogliò del costume, restando a torso nudo. John Meade stirò i muscoli, possente nelle sue cento e ottanta libbre. Poi iniziò a scaldarsi tirando pugni all'aria.
Meade aveva trentatrè anni e capelli biondi che iniziavano già a diradarsi. Si allenava a fare a pugni già prima della guerra, insieme ai fratelli. Dopo la battaglia di Bull Run, nel 1861, era solito sfidare i prigionieri fatti dal suo battaglione di fanteria, e nessuno l'aveva mai battuto. In quei giorni lui e altri giovani del Sud si erano davvero illusi di fare il culo all'Unione. Erano passati nove anni.

La Confederazione aveva perso il suo sogno di secessione, insieme alla passata prosperità e molto del suo più giovane sangue, e lui era tornato per trovare la fattoria dei suoi vecchi appena fuori Huntsville bruciata, insieme a loro, dagli yankees. Non era neppure la rabbia a portarlo a pestare a morte gli Zio Tom in quelle notti brave, in compagnia di ubriaconi come Hap Ewell e gli altri, ma la noia e la pochezza di una vita senza più illusioni giovanili. Certo, c'era poca gloria in quei combattimenti coperti dalla complicità della notte. Ma era pur sempre una soddisfazione essere il campione riconosciuto di quel piccolo gruppo.
- Fight! - Il latrato in coro dei suoi compari lo fece scattare in guardia. Il negro non sembrò badarci, restando a fissarlo con quegli occhi vacui. Meade gli girò un po' intorno, poi provò qualche colpo d'incontro.
Uno - due! I diretti presero il bestione in pieno naso, facendolo ondeggiare indietro. L'espressione idiota non cambiò, ma si mise in guardia in una goffa parodia delle minacciose ma aggraziate movenze di Meade.
Questi iniziò a scattare avanti e a ritrarsi davanti all'avversario, per provarne velocità e mira. I colpi con cui gli rispose sembravano dati da un cieco ubriacatosi di brutto, anche se parevano potenti.
Meade provò un paio di affondi allo stomaco, che non lo spostarono di un palmo, e richiuse la guardia per fermare un diretto. Molto forte, il suo polso scricchiolò mentre assorbiva l'impatto con le grosse nocche.
Allora cambiò tattica giocando più sporco, iniziò a spostarsi a lato del negro all'improvviso, sfruttando la sua rotazione per colpirlo vicino all'occhio o alla guancia. Quello sembrava non vederlo, e incassò in piena faccia ripetutamente. Ogni pugno era accompagnato da grugniti di compiacimento dal circolo dei suoi compari.
Eppure il negro non andava giù. Provò a sbloccare la situazione. Quasi di rincorsa, partì con un montante frontale, al mento. Udì chiaramente i denti frantumarsi gli uni contro gli altri. Doppiò di sinistro con un gancio stretto, e vide i frammenti schizzare dalla bocca del negro.
Allargò col destro, e stava partendo con una scarica di sventole al volto, certo che ormai il bestione non potesse più reagire.
Il fortissimo colpo alla bocca dello stomaco fu così improvviso che il dolore tardò ad arrivare, mentre gli giunse alle orecchie un "Ooh!" di sorpresa da parte degli altri. La botta lo sbalzò indietro, e immaginò cosa poteva aver provato Leonard, fratello di Hap, trapassato da una palla di cannone a Gettysburg.
Riuscì a stento a schivare un diretto al volto, rientrò con un destro largo, ma senza forza.
Col fiato corto, non riusciva più a danzargli intorno, e incassò con la guardia blindata una scarica di colpi non veloci, ma pesanti e inesorabili. Sentiva le nocche dell'altro frantumarsi sugli avambracci e la sommità della sua testa reclinata, ma lo Zio Tom pareva non accorgersene. Con la coda dell'occhio Meade vide un'apertura nella guardia, e tentò la mossa risolutiva: buttò tutto il suo peso in una sventola fortissima... e stavolta sentì il collo del negro spezzarsi.
Per un attimo provò un senso di liberazione e gioia per la fine di una dura lotta per la vita, come non gli capitava più dalla fine della guerra.
Un istante dopo un pugno nero si schiantò come un treno in corsa appena sotto il suo naso.
Il dolore salì come un'onda dai denti traballanti al cervello, annebbiando la vista. E insieme ad esso un terrore mortale.
Davanti a lui c'era una Nemesi dell'inferno: un negro enorme con il viso spaccato dai pugni ma da cui non cadeva una goccia di sangue. Aveva gli occhi pesti, ma lo braccava vigile come un lupo. La testa gli penzolava dal collo spezzato ma lui non si fermava.
Stava facendo a pugni con un morto. Suonava come una storiella che gli avevano raccontato. Mentre cercava di ricordarla, un altro pugno lo colpì sulla guancia, facendolo sollevare da terra e scagliandolo indietro. L'onda d'urto fu per lui un tuono assordante.
Giacque a pancia in giù, sputando sangue e denti sull'erba, e sentì gli altri imprecare e armare il cane delle loro pistole.
Non era un epilogo onorevole per lui, ma poco importava, pur di portare a casa la pellaccia.
Le detonazioni lo fecero sussultare. Si aspettava di vedere il mostro crollare a terra, ma alzando lo sguardo si accorse con orrore che non miravano a lui.
Altre figure scure, silenziose e orribilmente rigide si stavano avventando sui suoi compagni. Dunque erano caduti in una trappola. E lui non riusciva a rimettersi in piedi per dare una mano. Poté solo stare a guardare, fino a non poterne più, corpi color ebano, attraversati dai proiettili, continuare ad avanzare, mani nere ghermire le bianche tuniche e strappare i cappucci. Anche a occhi chiusi, continuò a udire i rumori smorzati della colluttazione, di ossa frantumate e l'urlo di agonia di Ewell.
Quando tutto fu silenzio, pensò che l'incubo fosse finito, ma riaprendo gli occhi li posò sul suo nemico, che si stagliava in muta attesa. Ora un cerchio di scuri spettatori osservava la lotta, con sguardi morti e raggelanti di statue. Corpi che erano simulacri di esseri umani mai vissuti come tali, ora privi persino dei sentimenti che si suole attribuire anche agli schiavi, ma mossi forse da un sortilegio, o da un odio antico.
Meade si rialzò con uno sforzo doloroso, e barcollante ma fiero andò incontro alla sua fine.
Mentre i colpi si abbattevano su di lui, e suoni, immagini e sensazioni divenivano confuse e rimescolate, pensò che doveva essere un fottuto incubo, come il tuono dei cannoni, i corpi dilaniati e i fiumi arrossati di sangue, immagini che lo perseguitavano ormai da anni. Ancora si svegliava di soprassalto all'alba, coperto di sudore, cercando a tentoni l'uniforme accanto al letto, per poi ricadere in un sonno inquieto.
Al prossimo mi sveglio, pensava con la mente intorpidita, al prossimo che busco mi sve...

Vincenzo Barone Lumaga