Le prime
luci dell'alba lo colsero sulle pendici del monte. Il fucile in spalla, avanzava con passo
sicuro in mezzo agli alberi, le gambe perdute nella nebbia. Un lieve scricchiolio di aghi
di pino, sotto gli scarponi, era il solo suono che potesse udire, assieme ai battiti del
suo cuore. L'aria era frizzante, umida: profumava di autunno in quel bosco solitario.
Erano i primi di ottobre.
L'uomo si fermò, guardandosi attorno. Il sottobosco cedevole si arrampicava in un intrico
di tronchi, privo di sentieri, di tracce. Il silenzio era innaturale, inquietante. Da lì
in poi si cominciava a fare sul serio: l'attesa era finita. Aggiustò il fucile sulla
spalla, stringendosi la cinghia sul petto.
Non il canto di un uccello, non un fruscio: solo quella nebbia bassa, che turbinava tra le
sue gambe, tra gli alberi, imbiancata dalla luce del mattino. Si sentiva teso, nervoso.
Lì, da qualche parte in mezzo agli alberi, era nascosta la sua preda. Da tre giorni
batteva quel monte, senza successo. Solo qualche traccia, impronte di zampe che non
potevano essere di nessun animale comune: non lo avevano condotto a nulla, ma era certo
che l'avrebbe trovata. Non era soltanto una leggenda dei vecchi giù in paese. C'era
davvero una strana bestia, lassù. Bene, sarebbe stato proprio lui a prenderla. Lui, il
miglior cacciatore della valle. Sorrise.
Riprese ad avanzare, circospetto, gli occhi piegati a osservare il suolo, quella terra
umida e morbida in cui affondavano i suoi piedi. La nebbia si era alzata, aleggiava ancora
in distanza, ma non copriva più il cammino. Le ore passavano, la luce si diffondeva, ma
ancora nulla. Continuava a cercare.
Sedette, la schiena contro un albero, il fucile posato al suo fianco, per consumare un
pasto rapido, insapore. Scosse la testa. Non doveva innervosirsi, sapeva già che sarebbe
stata una caccia lunga ed estenuante. Perdendo la calma, avrebbe fatto solo il gioco della
bestia. No! Non sarebbe andato ad allungare la lista degli scomparsi fra i monti. Quella
storia doveva finire: avrebbe riportato in paese il corpo di quella creatura. Per entrare
anche lui nella leggenda.
Erano anni che quella storia andava avanti. Quanta gente era già sparita, da quelle
parti? Troppa, di sicuro. Cacciatori, escursionisti, semplici persone che vivevano lì
vicino. Non si erano lasciati alle spalle nemmeno una traccia. Così era nato il mito del
mostro. E adesso lui l'avrebbe fatto finire. Ne era certo. Avrebbe purificato la montagna.
Dopo la sosta, s'incamminò lungo il versante settentrionale, il più impervio ed ostile.
C'era una pista, che conduceva verso la vetta, in mezzo ai pini. Il sottobosco ostacolava
i suoi passi, scivoloso e viscido sotto gli scarponi. Procedeva, appoggiandosi ai tronchi
coperti di muschio, inerpicandosi sempre più in alto. Il sole era celato dal corpo del
monte, il cielo frastagliato dai rami: si muoveva nella penombra del primo pomeriggio.
L'aria era pesante, tesa come poco prima di un temporale. Doveva succedere qualcosa, ne
era certo, ma ancora non osava pensare a cosa potesse essere. Lo scontro, questo sì. Ma
chi dei due sarebbe poi rimasto in piedi? Non voleva ammetterlo, ma cominciava da avere
paura. Non conosceva il suo bersaglio, non sapeva cosa si sarebbe trovato davanti. Non
sapeva come affrontarlo. Ma ci sarebbe riuscito, lui era il migliore della valle.
E lo vide, infine, quando l'orologio al suo polso gli suggeriva già la prudenza,
l'urgenza di tornare indietro, prima della sera. Una sagoma che si muoveva pigra tra gli
alberi, ai margini di uno spiazzo vuoto e brullo, dove la roccia spuntava grigia e umida.
Il cacciatore tolse il fucile di spalla, rapido e silenzioso. Puntò il dorso irsuto che
dondolava su quelle quattro zampe, la preda ancora ignara della sua presenza, della sua
minaccia. O almeno così sembrava.
Un respiro profondo, inclinò leggermente il collo, l'occhio incollato al mirino, le dita
impazienti. Di colpo la bestia si voltò, più svelta di ogni altro essere vivente: un
attimo e il suo muso era rivolto verso l'uomo. E così la vide.
La mole di un orso, gli arti di un gorilla, solidi e forti. Il pelo folto e nero faceva
risaltare netto il bianco del petto glabro, segnato da antiche cicatrici. La testa
sembrava quella di un cane, mutata in modo orrendo per assomigliare a un serpente. Non
aveva mai visto nulla del genere, non aveva mai creduto che potesse esistere: non c'era da
stupirsi di tutte quelle leggende, giù in paese.
La canna del fucile puntata contro quel petto, il cacciatore stava per sparare, quando
esitò. Gli occhi. Gli occhi di quell'essere incrociarono i suoi, il suo sguardo sembrava
leggergli nell'anima. Fu allora che se ne rese conto. C'era qualcosa di strano in quegli
occhi, qualcosa che non aveva mai visto in nessuna bestia, mai attraverso il suo mirino.
Intelligenza. E profonda tristezza.
Il corpo della creatura era un incubo orrendo, abortito dalla montagna, ed emanava
violenza, furia. Ma quegli occhi erano così umani, così vivi...
Rimasero a fissarsi, immobili. Il fucile tremava leggermente nelle mani del cacciatore. A
poco a poco le sue spalle si abbassavano, la sua stretta sull'arma si indeboliva. Non
poteva sparare, non a qualcosa che lo guardava così. Era come sparare a un uomo.
Intelligenti, tristi, quasi disperati: come poteva una bestia avere degli occhi del
genere?
Abbassò la canna del fucile, rivolgendola al suolo. Non aveva più alcuna voglia di
ucciderla. Non era quello il modo corretto di entrare nelle leggende, lo sentiva.
"Vattene, prima che cambi idea".
Quell'essere non si muoveva. Immobile, lo fissava con tristezza, gli occhi ancora
inchiodati ai suoi.
"Su, sparisci!", agitando il braccio libero, come per scacciare un cane.
La creatura sembrò capire. Con un ultimo sguardo, malinconico e rassegnato, gli voltò le
spalle, per incamminarsi lentamente verso la vetta del monte. Attraversò lo spiazzo
deserto, poi si fermò al limitare degli alberi. Lo guardò di nuovo, girando appena
quella testa deforme. Tristezza, profonda e incomprensibile, dagli abissi di
un'intelligenza inumana. E la furia trattenuta a stento che guizzava nei suoi muscoli.
Svanì tra i tronchi, come un'illusione.
Il cacciatore vide sparire la sua sagoma. Voltandosi, s'incamminò a passi gravi verso il
basso, per tornare al paese. Il fucile gli pendeva ancora dalla mano, inerte. Aveva
trovato il mostro delle leggende. Ma non aveva trovato il coraggio di ucciderlo. Aveva
fallito.
"Quello sguardo... Aveva gli occhi di un uomo, Cristo!".
Sconvolto, scuoteva il capo, lo sguardo di quell'essere ancora inciso nella sua mente. Non
riusciva a pensare ad altro. Perché doveva essere così disperato? Che senso aveva la sua
espressione? Poteva davvero essere quello il mostro della montagna, che aveva sterminato
così tante persone, nel corso di anni? Era difficile da credere, sembrava troppo
intelligente, troppo triste.
Non aveva nulla di spaventoso, nulla che facesse pensare a un assassino. Quegli occhi
erano troppo dimessi, troppo umani per appartenere a un essere tanto feroce. Erano
troppo...
Il cacciatore si fermò, bloccato da un pensiero improvviso. Possibile? Possibile che si
fosse lasciato incantare come un pivello? Intelligenti, tristi... Umani... Quell'abominio
lo aveva preso in giro? Lo aveva spinto a fare il suo gioco? Ma allora...
Scosso da un brivido, fece per girarsi, il fucile di nuovo stretto tra le mani. Ma non
poté concludere il suo movimento. Una risata, uscita da una gola inumana, o forse un
tuono in lontananza.
Fu allora che la bestia colpì, il corpo come una macchina assassina. Ma i suoi occhi
piangevano.