Mescolo
senza voglia il caffé che la barista m'ha appoggiato davanti agli occhi, barista che
prima di farlo m'ha chiesto "lungo?".
Sì, lungo. Gli altri avventori hanno la solita faccia di sempre, senza pelle.
Sì, perché io ho un piccolo problema di percezione. Rimango con gli occhi bassi, a
fissare il cucchiaino che gira, con la mia mano, in senso orario.
Non li sopporto più gli altri umani. Da quando ho dodici anni non vedo la pelle delle
persone. E non sono pazzo, non credo. In casa mia ho levato tutti gli specchi, vedrei
(meglio, non vedrei) anche la mia. Se t'incontro per strada e mi conosci e mi saluti, ti
riconosco dalle scarpe, è per quello che ti saluto anch'io.
Se prendo un giornaletto porno, immaginate voi.
Solo cose molli, muscoli, vene, articolazioni, ma non cerco più di distinguere quello che
vedo. Ho dimenticato cosa vuole dire un "bella ragazza".
Non so più che cosa significa "che faccia da scemo".
Non mi interessa più. La televisione mi parla dal suo angolo, e il giornalista ha un
brutto colorito nero sul lato del collo. Probabilmente non se ne accorgerà finché
qualche dottore del cazzo ipotizzerà quello che vedo coi miei occhi.
È strabiliante quanto noi uomini, senza pelle, siamo tutti uguali.
Siamo tutti quelle cose molli e attaccate insieme e bagnate e pulsanti.
È incredibile quanto mi senta più vicino all'umanità ora che non mai.
Cammino per la strada a testa bassa, e incrocio almeno un centinaio di
persone, appena nel primo tratto. Alzo gli occhi solo un attimo per vedere se la direzione
è giusta, e per un secondo mi rendo conto di questo solito spettacolo cui sono obbligato
ad assistere. Non mi ci abituerò, penso, mai.
Giacche e cravatte, vestiti scollati, felpe col cappuccio, cappellini e occhiali da
sole... indossati da un esercito di confusi individui scuoiati dall'espressione
allucinata, anzi, senza espressione, con quei denti così profondamente piantati nelle
gengive.
I bulbi oculari sono davvero sferici, li vedo sporgere per una buona metà, sfere sempre
in movimento, capillari, carne, sangue.
La faccia enorme di un politico, a livello terra. Gli passo davanti. Sento quasi brulicare
l'enormità del suo sottopelle di carta, così gigante. Nonostante il ribrezzo, è meglio
il viso orribile e sanguinolento che lo slogan che l'accompagna.
Ho questa percezione da quando avevo dodici anni. Capite perché non ho la ragazza?
O perché lavoro nelle fogne, come idraulico, da solo, per almeno dieci ore al giorno?
Quand'ero più piccolo avevo cercato d'immaginare tutti come se fossero tatuati molto
bene. Ma provateci voi a convincervi d'una cosa così enorme.
Almeno un anno l'ho passato a casa a terrorizzarmi, al buio, da solo, a spiare sempre meno
frequentemente dalle persiane semichiuse. Ad osservarmi allo specchio, a compiangermi, ma
a farmi sempre meno schifo. Dopo un po', delle cose si perde l'interesse. Non riesco a
sradicare il sogno d'esser l'unico con ancora una faccia, ma uno specchio confermerebbe il
contrario. Ma mi lascio sognare, per quel poco che riesco.
È una psicosi? È una condanna? Non lo so. Dipende dai momenti.
Dopotutto è strano non avere più la faccia. È strano sentirsi, pulsare, e non avere
un'identità. Almeno per me stesso. È stranissimo crescere contemplando quasi solo
l'aspetto di chi mi circonda, magari innamorarsi (o odiare) la propria immagine. Poi
dimenticare tutto questo e ripartire da zero.
E ripartire dal dover indossare per forza un paio di guanti per riuscire a guardarsi le
mani. Mi consolo con la musica e coi miei gatti. Gli animali li vedo come... come ho
imparato da piccolo. "Normali". Scrivo quello che mi ricordo dei volti delle
persone che ho conosciuto da bambino. Non sono bravo a disegnare. Preferisco trovare
sfumature di colore con un semplice tratto-pen, descrivendo il caos che mi circonda con
l'ordine fittizio e limitante dei quadretti.
Un termine: "rassicurante".
Allungato sul letto, fisso le forme che il sole disegna sul soffitto attraverso le
persiane quasi chiuse. I miei due gatti dormono con me.
Oggi mi brucia la gola. A testa bassa percorro tutto il viale, con le
mani ficcate in tasca a giocherellare con le monete ormai sudate. Il solito traffico. Il
solito silenzio negato. Mi chiedo cosa potrebbe essere il silenzio dello spazio. Nulla di
nulla di nulla per l'infinito, su e giù e a destra e a sinistra e in tutte le diagonali.
Buio e silenzio. Essere solo frequenza. La calma.
Un taxi investe un ragazzetto in bicicletta. Non alzo gli occhi e tiro dritto. Anche se
sarebbe l'occasione nella quale qualcun altro potrebbe avvicinarsi e guardare quello che
vedo io, tutti i giorni.
Incontro però un'anziana signora cieca, che mi conosce. E mi riconosce. Dall'odore? O dal
passo, non ne ho idea. Me lo chiedo mentre m'intercetta, all'angolo.
Mi chiede dei gatti. Farfuglio un "tutto bene".
Darei la mia vista per essere cieco.
Probabilmente la signora vive i suoi problemi di non vedente di buon cuore.
È radiosa tutte le volte che la incontro, ma non so che viso abbia...
Oggi mi lascia a bocca aperta. Mi dice -Tu vedi, ma non riesco ad invidiarti.
I suoi bulbi oculari fissano un punto nell'infinito. Ognuno un punto diverso.
Poi se ne va. L'osservo camminare piano sul marciapiede, col suo bastone.
Saluta i passanti, che la conoscono, che lei riconosce per prima.
I passanti senza la faccia. Sembra poetico. Provate ad immaginare.
In farmacia rimango, al solito, col viso piantato sul piano del bancone di marmo. Vedo le mani della farmacista che s'infilano sotto il ripiano, mi porge la scatola di pasticche per il mal di gola. Dietro di me, una coda ordinata di persone che hanno bisogno di aiuto. Una medicina. Una risposta. Anche solo un'illusione d'una soluzione, la parvenza d'una lampadina fioca. Passo davanti alla chiesa, austera e vuota, sulla via per andare al parco. Oggi è giorno di pausa. Niente fogne e buio e scarico e chiavi inglesi e chiacchiericcio dei topi.
C'è la mia panchina rivolta verso il laghetto coi cigni e le anatre.
Potrei rimanere per ore a fissare la bellezza di queste creature stupide ed eleganti.
Innocenti, e per questo bastarde inconsapevoli. Inconsapevoli di che? Sono il primo ad
essere inconsapevole. Cerco il volto della realtà, ma mi si cela.
E mi fa paura, anche se sarei l'ultimo a riconoscerlo.
Però nei sogni la rivedo. Lei, la faccia. La pelle.
La faccia della prof. di cui ero innamorato, a dodici anni, prima dell'incidente.
Il bellissimo viso, scuro, mediterraneo, snello e accattivante, e gli occhi verdi
incastonati come gioielli nella costruzione perfetta e asimmetrica, umana, della sua
espressione. Correggeva i temi, e mi guardava come guardo i cigni.
Creatura inconsapevole. Innocente. Sorrideva, e m'accontentava con discreti commenti. Non
mi ha mai calcolato, c'era l'ovvio salto di generazione che ho compreso solo col tempo,
solo col mio problema, solo dopo il problema.
Ma al momento era un Everest che trovavo insormontabile.
Era la mia montagna di sofferenza, di un dodicenne che soffre tanto quanto può soffrire
solo un dodicenne. La mia vita s'è fermata in quel momento. Non me lo scorderò mai. A
guardare i cigni, mi racconto cos'è successo, ancora una volta.
E non ne cerco il senso. Non chiedo scusa. Cerco la via d'uscita, ma probabilmente non
riconosco il portiere che saprebbe indicarmela.
Era notte, e non ero da solo. Eravamo in quattro, tutti dodicenni,
tutti ragazzetti di periferia incazzati e già troppo grandi, ci sembrava. Sapevamo dove
abitava la prof. Ma non sapevamo cosa fare, non era nostra intenzione fare quello che poi
avremmo fatto. Finché ci trovammo all'interno del giardino della villetta, silenziosa,
illuminata solo dai palloni gialli, rasoterra.
Poi in casa. Non un allarme. Solo silenzio. Solo sagome di mobili, un pianoforte, ricordo,
il tappeto, un ambiente vasto e ricco, al contrario di quelli dove ho vissuto tutta la
vita. Profumo di pulito. E di nuovo.
Un gatto nero. Nel nero. Immobile.
In punta di piedi, trattenendo le risate, c'avventurammo lungo il corridoio buio e lungo.
Alle pareti delle lunghe maschere africane, una dietro l'altra, finte e immobili e
inquietanti. Ci trovammo in bagno, i lineamenti d'innumerevoli prodotti ai lati del
lavandino. Tappetini soffici e pelosi. Riviste appoggiate sulla vasca. Poi trovammo la sua
camera.
I cigni starnazzano, mi fanno trasalire, due ragazzi in tuta mi passano dietro le spalle, chiacchierando scanditi dal fiatone. Mi giro e ne vedo i muscoli dei polpacci gonfiarsi, rossi e viola, e il cranio rosa e appiccicoso.
Lei dormiva , a pancia in su, coperta solo dal lenzuolo. Intravedevo la
forma dei seni, belli, pieni e rotondi. Capii che era nuda. Lo capimmo tutti.
Poi ci venne l'idea. Tornammo nel corridoio, ci spogliammo e togliemmo quattro maschere
dalle pareti. Maschere con i lineamenti allungati, nere, orripilanti. Lasciammo tutti i
vestiti ammucchiati alla rinfusa. Il gatto c'aveva seguiti, e continuava a fissarci
immobile, per nulla spaventato, all'entrata del corridoio.
Tornammo nella camera. Due di noi si diressero ai lati del letto, piano, e lei si mosse,
forse intuendo delle presenze nella sua intimità. Fatto sta che l'afferrammo dalle
braccia, il terzo le puntò una taglierino alla gola. E io cominciai a violentarla. Non mi
dimenticherò mai gli attimi di terrore nei suoi occhi, così belli e pieni, ora divorati
dal panico, un grido soffocato. Poi le lacrime. Lei era immobile. Morta. Noi ridevamo e
gridavamo, quattro piccoli diavoli. Io continuavo con violenza a spingermi nel suo
bellissimo corpo. Ci demmo il cambio. Più e più volte. Lei non disse mai:
"basta". Non aprì bocca. Pianse, con gli occhi chiusi, per tutto il tempo. Noi,
nudi e mascherati. In via di sviluppo.
Dei diavoli. Cominciammo a penetrarla con gli oggetti che trovavamo nella sua camera.
Un flauto. Un telefono. Tutto quello che ci capitava sotto tiro, fedeli all'altare della
follia, gridavamo, scalciavamo, le maschere ululavano per noi.
Poi ricominciammo coi nostri corpi. Sempre nella stessa formazione.
Polsi stretti, taglierino. La tagliammo sul collo, leggermente, sulla pancia, sulla
faccia. Lei, zitta. Lacrime. Lacrime. La martellammo di pugni, schiaffi, le lacerammo la
pelle coi denti, in un frenetico balletto intorno al fuoco. Lacrime. Goccioline di sangue.
Poi sentimmo la porta aprirsi di scatto, l'uscio di casa, e rimanemmo
immobili e zitti. Lei aprì gli occhi. In un secondo, pochi passi veloci, s'aprì anche la
porta della camera, e i miei compagni s'allargarono, abbandonando la loro posizione,
ancora mascherati e sudati. Nel buio. L'intruso ci mise poco a capire, e accesa la luce,
ci si scagliò contro. Loro, gli altri tre, riuscirono a guizzargli alle spalle e scappare
via. Io no.
L'intruso mi prese per un braccio, spezzandomelo in due punti come un grissino, e
scagliandomi contro la grossa vetrata a fianco del letto. Con la faccia. La maschera si
spezzò, e il vetro andò in frantumi. L'ultima scena che vidi era un ragazzino nudo,
bagnato, con questo faccione nero, lunghissimo, deformato in un ghigno. E gli occhi del
gatto, che mi fissavano, in un angolo dello specchio. Persi i sensi.
Mi rialzo dalla panchina. S'è fatta sera. Testa bassa, mani in tasca,
seguo il vialetto che mi porta all'uscita del parco. Cammino piano. Ho così poche cose da
fare e così tanto tempo. Il brusio d'un locale dall'altro lato della strada, non guardo
neanche. Tiro dritto. Una mano mi ferma dal dietro, prendendomi per la manica. Hai
d'accendere? Mi chiede. No. Non fumo.
Mi sto per voltare ed andarmene. Neanch'io fumo, mi dice lei. Era così, solo per...
attaccare bottone.
Continuo a guardare per terra. Mi cerco di voltare, ma mi trattiene.
Che fai? Ti do fastidio? Dimmelo subito, eh! Squittisce.
Se le vedessi il viso direi che è imbronciata, per gioco. Ma non glielo vedo, quindi non
rispondo e le fisso le scarpe.
No perché... mi sembravi un tipo interessante. Ti vedo spesso, sai? Sei sempre serio,
chissà a cosa pensi... sei... un pittore? Mi tiene per la manica.
No. Non sono un pittore. Lasciami, ora, le dico. Lasciami che devo andare.
Dai, non sei un pittore, un ritrattista, che ne so? Dai, non sei magari uno scrittore? Mi
tiene ancora per la manica.
No. Alzo lo sguardo per vederla, come per darle un contentino. Ha un orribile segno nero
sotto l'occhio destro, carne marcia. I bulbi oculari fuori dal cranio, iridi enormi,
azzurrissime.
Vattene via, le dico. Vattene via.
Divincolo il braccio. Vattene via.
Infilo le mani in tasca, giocherello con le monete, e a testa bassa m'incammino verso
casa.