I sogni
cominciarono per caso, senza un avvertimento, senza qualcosa che potesse prepararmi a
tutti i cambiamenti che avrebbero portato nella mia vita. Mi colpirono così, da un
momento all'altro, e da allora ho smesso di essere solamente io. Forse sembrerò pazzo e
forse lo sono davvero, ma non mi è possibile definire il terrore che mi coglieva ogni
notte, quando si avvicinava l'ora di dormire e le dita degli incubi sfioravano la mia
mente, congelando i miei pensieri.
Cercavo di rubare tempo al sonno, vagando come un disperato per le vie anguste dell'antica
città in cui abito. Vicoli bui, corridoi che affondano tra file irregolari di case
decrepite: mi angosciavano, ma il contatto freddo della pietra mi rassicurava, tratteneva
l'inferno degli spazi aperti e immensi, dove ogni cosa si può nascondere in agguato. Il
buio, in questo luogo, è sempre stato più fitto che altrove, ma a volte riesce a
proteggermi. A volte mi dona un istante di pace. È meglio non vedere certe cose, è
meglio non abbandonare il rifugio sicuro delle tenebre, dell'ignoranza.
Eppure anche qui c'è sempre stato qualcosa a tormentarmi, a sussurrarmi gli orrori più
folli dei miei sogni. Il lento sciabordio dell'acqua, l'odore penetrante dei canali: sono
ovunque, cullano il mio respiro, la mia esistenza. Avrei voluto abbandonare questo luogo,
allontanarmi dalla minaccia delle onde, andare in un luogo in cui non dovessi mai più
rivedere questa cupa laguna. Avrei voluto lasciarmi alle spalle anche il silenzio
ancestrale delle sue calli anguste, così nere quando il sole svanisce, ma non ho mai
avuto la forza per farlo. Non prima.
Le sentivo trattenermi, incatenarmi a questi edifici, ai segreti racchiusi nelle loro
viscere. Perché queste mille isolette, sparpagliate in uno specchio d'acqua fangosa,
ricordano ancora le stagioni incalcolabili che precedettero l'uomo, i millenni senza nome
che dormono nei fondali fangosi, sotto la nostra coscienza. Ci sono abitanti più antichi
di noi e sono ovunque, invisibili, sepolti nella terra, morti ma ancora vivi. Su di loro
abbiamo costruito le nostre case, su di loro abbiamo fondato le nostre civiltà. Ed essi
aspettano, pazienti.
I sogni me li hanno mostrati, quegli incubi terribili che mi perseguitano ogni notte. A
volte cercavo di convincermi che fosse solo pazzia, allucinazioni di una mente troppo
fantasiosa. Ma non è così, non può essere così: lo sentivo, nella vibrazione delle mie
ossa, nell'aria che mi circonda. E ora lo so. Cammino per le calli addormentate, sfioro le
pietre consumate degli edifici, ascolto il monologo dell'acqua contro il bordo dei canali.
Perché nessuno se ne accorge? Perché sono così ciechi?
Vorrei avvertirli, forse dovrei avvertirli, ma so che non mi crederebbero. Eppure il
silenzio è così profondo quaggiù, nelle notti in cui non oso dormire e spendo le mie
ore a vagare da solo, fuggendo dalle visioni. Il silenzio è così profondo, nelle strade
che s'interrompono improvvise, stretti cunicoli che si spengono di fronte alle acque nere
della laguna. E oltre? Cosa c'è oltre?
Non lo voglio sapere, anche se i sogni ritornano sempre a raccontarmelo. È la traccia
lasciata dalle genti di prima, il marchio impresso su questo minuscolo arcipelago separato
dal mare. Mi terrorizza e mi attira, vorrei allontanarmi e invece gli corro incontro. Sono
solo una marionetta.
E anche adesso cammino, in questa notte di autunno, mentre le stelle si accendono nel
cielo. I turisti scompaiono a poco a poco negli alberghi, i rumori si spengono nelle calli
e nei campi, ogni luogo si svuota. Rimango ancora io, a vagare per non dover cedere al
sonno. Sento il suo richiamo, sento le sue dita che affondano in me, nella mia carne, ma
non posso arrendermi così presto. Non questa volta, non dopo la decisione che ho preso.
Perché c'è qualcosa che vorrei verificare, una volta per tutte, una conferma di cui ho
bisogno, per sapere se sono io a essere pazzo o se è tutto vero. L'idea mi distrugge,
eppure devo vedere, devo conoscere.
O è follia anche questa? Non riesco più a capire dove sia il confine tra la mia volontà
e l'imperativo che mi viene dai sogni. Ma non importa, non ora. Non cambierò la mia meta,
se mi resterà coraggio a sufficienza. Gli incubi reclamano nuovi sacrifici, ma io non
sporcherò le mie mani di altro sangue, non senza prima aver veduto. È per questo che
sono rimasto fuori, stanotte.
L'acqua che gorgoglia nei canali mi fa tremare, sembra il risucchio di una creatura
blasfema, che si annida in quei fondali bassi e scuri. È soltanto suggestione, lo so,
eppure non riesco a liberarmi dai pensieri più assurdi. Non riesco, perché la mia meta
potrebbe essere il cuore di questa pazzia, delle più orribili creazioni della nostra
mente. Il buio è solido attorno a me, gelido come i vuoti abissi tra le stelle. Vorrei
incontrare qualcuno, incrociare un volto umano, ma sono solo.
È là che devo andare, è là che qualcosa mi attira. Giudecca: che ironia in quel nome!
Chissà se loro sapevano, quando scelsero di chiamare così quel largo bacino, la striscia
di isole a sud di esso. Non è che l'estremità meridionale della città, un gruppuscolo
di case raccolte, che i turisti evitano e la gente guarda con sospetto e sufficienza, come
la pecora nera della famiglia. Ma è davvero là, come i sogni mi sussurrano? Quel nome
infernale sembra confermarlo, ma potrebbe essere l'ennesima mia illusione. Ho sempre avuto
molta fantasia; forse troppa, per vivere normalmente.
Guardo quell'acqua immobile, una distesa nera sotto il nero del cielo notturno. Davanti a
me poche luci, gli ultimi lampioni rimasti accesi. Non c'è più nessuno, non a quest'ora,
e i brividi risalgono le mie braccia, agitano le mani nelle mie tasche. Ma non posso
cedere ora, non posso cedere quando io sono a pochi metri dal mio obiettivo. E là, lo
sento nelle ossa.
E all'improvviso lo sento davvero, non è più una fantasticheria. Mi chiama, la sua voce
rimbomba nella mia testa, suoni che non appartengono a questo mondo. Mi sembra di
ascoltare il brontolio dei tuoni, l'eco di una frana, la risacca notturna dell'oceano.
Eppure quei rumori compongono parole, ordini che ho udito già mille volte in sogno, negli
incubi terribili che mi hanno tormentato così a lungo. Laggiù, si trova laggiù. Posso
quasi vederlo nei miei pensieri.
Il grande edificio abbandonato, all'estremità occidentale della Giudecca. Nelle sue
viscere, sepolto e nascosto dalla terra e dalla laguna, dorme ciò che sto cercando, la
creatura che mi chiama. Forse è là che si raccolgono i suoi fedeli, forse è là che
anch'io dovrò andare, per unirmi a loro. Ormai non ho più dubbi: è il mio destino. Non
posso resistere alla Sua chiamata. Fa parte di me, forse già da sempre. Fa parte di me,
mi ha impresso il Suo segno.
Ma non andrò tra quelle rovine, non ora. La sua voce mi avviserà, quando sarà il tempo.
Adesso ho un altro incarico, altri doveri da compiere per Lui. In questa città,
addormentata sotto le sue isolette e i palazzi che affondano a poco a poco, c'è soltanto
un piccolo esemplare della Sua progenie. Ciò che dovrò fare, per il tempo che resterà,
sarà di andare alla Sua ricerca e celebrare i Suoi sacrifici. Si risveglierà, un giorno,
quando le stelle saranno nella posizione giusta: io dovrò essere pronto ad accoglierLo,
se ci sarò ancora. Perché ora è morto, ma non lo resterà per sempre.
Le calli vuote, il silenzio dei campi deserti, mi appaiono così irreali, ora.
L'antichità di queste pietre non è nulla, nulla di fronte alla sublime grandezza di
un'altra città, inabissata già da molti millenni, prima che le acque cominciassero a
minacciare anche questo luogo. È buffo come siano simili: forse è per questo che quella
creatura ha scelto di dimorare proprio qui, dietro ad altre case condannate. Quella
creatura, un esemplare della Sua progenie scomparsa. Ma torneranno e il mondo sarà loro.
Dovrò raggiungere Iram dalle Mille Colonne, il cuore del nostro culto: là mi diranno
ogni cosa. Il terrore non mi ha ancora abbandonato, continua a sussurrarmi in un angolo
della mente. Ma adesso lo posso dominare, adesso sono io a controllarlo. Ho paura, ma so
che è il mio destino. E ogni notte ne ho la conferma, nei miei sogni.
Ogni notte, quando rivedo il ciclopico orrore dalla testa di piovra, sullo sfondo di
rovine colossali, e suoni inumani riecheggiano nella mia mente, ripetendo sempre la stessa
frase, ossessiva.
"Cthulhu fhtagn...".