La mosca d'oro

Il fatto accadde a ciel sereno quando l’esistenza si svolgeva nel migliore dei modi ed egli si indignò terribilmente per questa immeritata afflizione. Uno scandalo atroce che si rifletteva direttamente sul suo onore, lo coinvolse, distrusse in un momento la posizione della sua intera vita così laboriosamente costruita, la sua reputazione.
Agli occhi del mondo egli era un avanzo, un uomo diseredato, proprio in questo momento, quando le sue migliori ambizioni stavano per raggiungere il successo. E la crudeltà del fatto sconvolse il suo senso della giustizia, poiché era impossibile vendicarsi senza incolpare altri che gli erano cari più della sua vita. Sembrava più di quanto poteva sopportare; e la truce soluzione che contemplò (una soluzione per ora solo abbozzata sullo sfondo del suo essere) gli apparve come l’unica via di uscita che gli veniva offerta. Egli discusse la cosa con gli amici finché il suo cervello fu tutto un subbuglio. La comprensione degli altri lo faceva impazzire con quegli accenni a “chi si scusa si accusa”, ed egli si rivolse alla fine con disperazione verso quella cosa che non poteva rispondergli. Per al prima volta nella sua vita si rivolse alla Natura, a quella morta, inanimata Natura che aveva sempre lasciato ai poeti e alle donne nervose.
“Devo risolvere da solo” concluse. Poiché l’Aiuto di Dio era una parola senza significato per lui, e tutto il suo essere non conteneva nessuna traccia dell’istinto religioso. Egli era un uomo d’affari onesto, egoista e ambizioso; e il crollo della sua posizione nel mondo era paragonabile al crollo dell’intero universo, del suo universo in ogni modo. Questo “universo frantumato” era l’unico pensiero che occupava la sua mente. Egli lasciò la casa seguendo un sentiero solitario e raggiunse le distese di erica che formavano uno dei luoghi più salubri della Nuova Foresta. Là egli si inoltrò desolato in un bosco di pini. E il suo universo frantumato stava con lui, poiché non poteva sfuggirgli. Prese la pistola dalla sua tasca perché sentiva che gli faceva male il fianco, e si sdraiò per osservare le nuvole. Mezzo stordito, mezzo abbagliato egli guardava il cielo. Il vento profumato passava leggero sul suo viso; fiutò l’odore del miele d’erica; mosche dorate stavano immote nell’aria, come spille colorate che trattenevano i raggi del sole sulle tende azzurre dell’estate; mentre i coleotteri, simili a navette sfreccianti, intessevano su questo scenario fili di bronzo scintillante. Sentiva il grido petulante delle pavoncelle e osservava il loro acrobatico volo. Sotto di lui gorgogliava un ruscelletto con l’acqua scura che si increspava fra i banchi di torba. Dovunque c’erano gorgheggi, pace e incurante disinteresse.

E questa signorile indifferenza della Natura lo calmò e lo acquietò. Nè il dolore umano nè l’ingiustizia dell’uomo poteva cambiare il ritmo dell’acqua, alterare di un singolo tono il grido della pavoncella, nè influenzare di una frazione di pollice quella fila di nuvole vaporose che navigavano nel cielo. La terra ruotava attorno al sole come aveva ruotato per secoli. La potenza della sua stabile andatura, superbamente calma, traspirava dovunque con grandiosità; era imperturbabile, possente e supremamente sicura... E, come il lampo di quelle mosche dorate, un pensiero vivido gli illuminò improvvisamente la mente: che il suo mondo di agonia stava chiaramente attaccato dentro il minuscolo spazio del suo cervello. Al di fuori di lui questo suo mondo non esisteva più. La sua mente lo conteneva, esso era dentro il minuscolo interno che egli chiamava il suo cuore. La sua sofferenza stava estremamente separata dal mondo più vasto attorno a lui, proprio come i documenti contenuti in scatole nere giapponesi di latta che teneva nel suo ufficio stavano separati dal resto dell’universo; la sua sofferenza era ammucchiata nello spazio sovraffollato dentro il suo cranio...
Era abbastanza strano il modo in cui venne raggiunto da questo pensiero banale, che si era presentato in forma così sorprendentemente nuova; sembrava che la violenza del suo dolore avesse bruciato qualcosa. I suoi pensieri infiammavano semplicemente il dolore; ma questa altra cosa lo consumava. Qualcosa che aveva oscurato la chiarezza della sua visione si raggrinzì come un pezzo di carta consumato dal fuoco, si rimpicciolì in un mucchietto di ceneri insignificanti. Il groviglio della sua mente diventò un po’ più trasparente. Nella sua parte più estrema egli vide, per la prima volta, la luce. La prospettiva della sua vita interiore, finora così enorme, si rimpicciolì con le proporzioni di una miniatura. Così importante e significativa poco fa, era adesso una cosa improvvisamente differente, osservata da un altro punto di vista. La sofferenza aveva bruciato la spazzatura che lui stesso aveva messo in pila sopra un piccolo avvenimento. Come un punto di metallo che splende ma che non brucia, egli scoprì nelle profondità del suo essere l’essenziale splendente realtà, che questa rovinosa conflagrazione non poteva distruggere. E questo brillante, indistruttibile nucleo era... la sua Innocenza. Tutto il resto era spazzatura da retroguardia, opinioni del mondo. Egli aveva ingrandito un atomo in un universo.
Il dolore (così sembrava) aveva aperto la via e la sublimità della Natura si era approssimata a lui. La calma dell’universo gli rotolò sopra. Il profondo, maestoso Giorno gli diede una spinta come se le spalle di qualche stelIa avessero sfiorato le sue spalle. Egli aveva pensato che le sue sensazioni fossero il mondo; invece, esse erano semplicemente il suo modo di vedere il mondo. L’attuale “mondo” era una cosa gloriosa, immutabile, che lui non aveva mai visto direttamente. La sua attitudine mentale era solo uno spioncino sul mondo. La scelta di questo particolare spioncino, inoltre, dipendeva sicuramente dal potere della sua volontà individuale. L’angoscia, centrata su un punto così piccolo, sembrava coinvolgere l’intera distesa dell’universo intorno a lui, mentre in realtà essa coinvolgeva niente altro che la sua attitudine mentale verso l’universo. La verità lo colpì come un pugno fra gli occhi: che un uomo è quello che egli pensa o sente di essere. Questa verità superò la barriera fra parole e significato. Il concetto intellettuale divenne un fatto spigoloso, poiché egli se ne rendeva conto per la prima volta durante la sua vita molto circoscritta. E questo terribile dolore, che gli aveva fatto sembrare desiderabile il suicidio, era interamente opera della sua propria mente. L’universo intorno a lui continuava a ruotare nella stessa maestà del suo eterno scopo. Il suo minuscolo mondo interiore era annuvolito, ma la gloria di questo stupendo mondo intorno a lui era nonoffuscata, limpida, impassibile. Anche la morte stessa...
Con un veloce colpo di mano schiacciò la mosca dorata che si era posata sul suo ginocchio. Questo gesto fu fatto di impulso completamente senza intenzione. Egli guardò il piccolo punto giallo che rabbrividì per un momento fra i peli della stoffa dei pantaloni; poi si immobilizzò per sempre... ma il profumo del miele di etica riempiva l’aria come prima; il vento passò sospirando attraverso i pini; le nuvole ancora percorrevano il loro primordiale mare di blu. Sotto il sole si stendeva l’intera superficie della Foresta. Solamente la consapevolezza della mosca verso tutto questo, era andata perduta. Un unico, minuscolo punto di vista, era scomparso. La Natura procedeva, calma e lenta, senza accorgersi di niente.
Allora, con un senso di meraviglia, un altro pensiero lampeggiò in lui: la Natura se ne era accorta. C’era una diversità intorno a lui. Neanche un passero cade (si ricordò) senza che Dio lo sappia. Dio era certamente da qualche parte nella Natura. I suoi goffi sensi non potevano percepire questa differenza ma essa c’era. Il suo piccolo mondo, costruito da questi sensi, era solo un semplice, piccolo angolo dell’Esistenza. Ma davanti all’intera Esistenza, che includeva lui stesso, la mosca, il sole e tutte le stelle, egli doveva in qualche modo rispondere per questo suo crimine. Era stata una capricciosa interferenza con il sublime e sovrano Scopo che egli adesso intuiva per la prima volta. Guardò il piccolo punto giallo immobile e silenzioso sui suoi pantaloni. Si rese conto dell’enormità del suo gesto. Non era meno grave che se avesse spento il sole, oppure la piccola insignificante fiamma della sua propria vita. Aveva fatto una cosa malvagia, criminale poiché aveva interrotto un certo punto di vista; lo aveva cancellato; lo aveva reso impossibile. Se la mosca fosse stata più svelta, meno facilmente attaccabile, un più forte frammento della vita universale, la Natura in questo istante sarebbe stata più ricca di una piccola porzione di un insieme di cose; cose alle quali anche lui apparteneva. E dove, si chiedeva, dove lui differiva da quella mosca? Dove era la differenza, in importanza, in contributo all’universo? L’anima...? Non aveva mai dedicato neanche un pensiero a questa cosa; ma se il frammento di vita che lui possedeva si chiamava anima, perché non doveva esserci anche dentro in quella mosca? Le sue minuscole dimensioni, i suoi scopi triviali, le sue poche ore di esistenza apparentemente futile.... Tutto ciò non costituiva un criterio per giudicare!...
Mentre egli pensava a questo un’altra mano si tendeva per schiacciarlo. Il dolore era l’ombra del suo avvicinarsi; la collera nel suo cuore era un ammonimento. Se non fosse stato abbastanza svelto e abile, sarebbe stato spazzato via, mentre la Natura continuava il suo lento inarrestabile corso senza di lui. Il suo atteggiamento verso il dolore personale era veramente un test della sua abilità, del suo merito... del suo diritto a sopravvivere. Il dolore insegna, il dolore sviluppa, il dolore fa crescere: lo aveva sentito fin dai banchi di scuola. Ma ora se ne rendeva conto mentre il pensiero saltava la barriera fra le parole familiari e il loro significato. Nel modo in cui egli guardava la catastrofe, stava la sua salvezza... o la sua morte. In forma confusa e maldestra (poiché correva lungo canali mai usati) la verità arrivò a lui fino a sopraffarlo, portando con sé un non voluto senso di gioia che sembrava rompere la crosta che per tanto tempo aveva tenuto sotto di sé la vita. Così attinse a queste sorgenti che zampillavano, gorgogliavano, spandendosi sopra il suo essere, inondandolo con speranza e coraggio, ma soprattutto, con calma. La Natura conteneva forze reali e vive, come la comprensione umana, e altrettanto capaci di modificare l’anima. E la Natura era sempre accessibile. Un senso di enorme compagnia, negatogli dalla meschinità dei suoi compagni-uomini, si posò dolcemente sopra di lui. Era stupefacente, esaltante anche se contornato di paura, mentre si rendeva conto della presunzione del suo precedente atteggiamento e della sua cinica indifferenza. Questi Poteri erano consapevoli della sua stupida insolenza, e nonostante ciò non lo avevano schiacciato. Era, naturalmente, il risveglio dell’istinto religioso in un uomo che finora aveva adorato soltanto una bassa forma di intelletto.
E mentre era scosso da una enorme confusione, gli rimaneva questo senso di incomunicabile dolcezza. Chiari occhi ammaliatori, pieni di amore, lo guardavano dall’azzurro; e questa dolcezza che gli venne vicino, stava anche lontano, nella linea dell’orizzonte. Era dappertutto. Essa riempiva i vuoti ma torreggiava sopra di lui come gli alti pinnacoli delle nuvole. Era nell’acuto grido della pavoncella e nel mormorio dell’acqua. Sussurrava nei rami dei pini e fiammeggiava in ogni raggio di sole. Era una gloria pura e semplice. Lo riempiva con un senso di forza che egli poteva descrivere con una sola parola: trionfo.
E così, per primo la collera sbiadì dalla sua mente e scivolò via. Il risentimento svaporò. Ribellione e delusione si sciolsero e l’amarezza lasciò il posto alla pace più meravigliosa che l’uomo abbia mai conosciuto. Per ultimo venne la rassegnazione a riempire i posti vuoti rimasti. Il dolore, come mezzo e non come fine, aveva schiarito la strada, anche se la sua riuscita assomigliava a un miracolo. Nessun dolore comune può fare questo. Questa angoscia egli la giudicava adesso in un muovo rapporto con la sua vita; era come qualcosa che egli aveva voluto prendere coscientemente su di sé, incurante della pubblica opinione. Quello che le persone dicevano e pensavano era nel loro mondo, non nel suo. Ed era meno di niente. Il dolore assunse sembianze da dormiente. Il terrore se ne andò. Esso rivelò...
Lui osservò il vento, e perfino il vento gli portò una rivelazione; poiché senza ostacoli la sua corsa sarebbe silenziosa. Allora osservò la luce del sole, e anche la luce gli insegnò qualcosa; poiché senza ostacoli contro cui riflettersi verso i suoi occhi, lui non potrebbe vederla. Non sentirebbe il gorgoglio dell’acqua né il calore dell’estate se entrambi non incontrassero delle resistenze nelle loro corse. E, similmente con il suo essere morale, il suo dolore risultava dalla frizione delle sue ambizioni personali contro lo sforzo di qualche nobile Potere che cercava di sollevarlo più in alto. Quel Potere lui non poteva conoscerlo direttamente ma egli riconosceva lo sforzo contro di lui causato dalla resistenza, generata dall’inerzia dell’egoismo. Il suo modo di pensare aveva rovesciato la situazione. Era successo ciò che i predicatori chiamano: sviluppo attraverso la sofferenza.
Inoltre egli aveva acquisito questa energia di sopportazione attraverso il vento, il sole, la bellezza di un comune giorno di estate. La loro pace e forza erano entrate in lui. Inconsciamente sulla strada verso casa rinforzò il proprio spirito. Buttò la pistola in una pozza di acqua. La Natura lo aveva guarito; e la Natura, se egli fosse diventato ancora debole, era sempre là. Era meraviglioso. Aveva voglia di cantare...

Algernon Blackwood

Racconto raro dell'orrore scelto e tradotto da Sergio Bissoli.