Spuntò
all’improvviso dal ciglio della strada, col suo pigiamino a righe blu e
bianche.
I piedi scalzi e pieni di fango, quegli occhi vuoti e neri come l’antro di
un grizzly. Feci appena in tempo a sterzare con un gran fragore, aprii lo
sportello dell’Audi lasciandola in diagonale, quasi a formare un posto di
blocco. Il bimbo se ne stava inerte, lo sguardo fisso, era in evidente stato
di shock. Cautamente gli poggiai una mano sulla spalla.
«Tesoro, sai dirmi che ti è successo?».
Continuava a guardare un punto in direzione del posto da dove era sbucato.
«Il fuoco», disse con una vocina così flebile che sembrava venire dal
passato.
Mi guardai intorno preoccupata, non riuscivo a vedere nulla, non c’erano
altre macchine o persone nelle vicinanze.
«Il fuoco», ripeté ancora più sinistramente.
All’improvviso mi si gelò il sangue nelle vene, mi precipitai verso il bordo
della strada e sporsi la testa nella scarpata. Ed eccola lì, una berlina
grigia ribaltata, con le ruote che ancora giravano per forza d’inerzia.
Quella povera creatura doveva aver avuto un incidente, forse era l’unico
sopravvissuto. Con mano tremante frugai in tasca alla ricerca del mio
cellulare, composi il numero dei carabinieri; la veloce risposta
dell’operatore mi diede un briciolo di conforto.
«Ho bisogno di aiuto», proruppi con la voce spezzata dall’affanno
dell’angoscia, «c’è stato un incidente». Mi veniva da piangere, mi sentivo
così disperata.
Il piccolo continuava a fissarmi con una strana espressione dipinta sul
volto rosato.
«Signora, si calmi e mi dica dove si trova», gracchiò il carabiniere.
Già, dove mi trovavo? Il cuore accelerò bruscamente, tentai di spulciare
quell’informazione nei cunicoli della mente, sembrava che la mia capacità di
ragionare fosse andata in black out.
E lui continuava a fissarmi, immobile, quasi crudele.
«Via di Casal Selce, è una strada di campagna, c’è un lago alla mia destra»,
mi guardai intorno per cercare un punto di riferimento da indicare.
Inaspettatamente il bimbo mi strappò il cellulare di mano e pose fine alla
comunicazione.
Sbigottita, lo guardai sgranando gli occhi. «Sei impazzito?».
Insisteva a colpirmi con quello sguardo statico. Compassionevole.
«Vieni», disse tendendomi la manina paffuta, «devi vedere».
Cercai di opporre resistenza, ma il bimbo era risoluto, mi portò di nuovo
verso la scarpata costringendomi a guardare la macchina.
«Lo so, stavo chiamando aiuto ma tu», fece un gesto per interrompermi.
«Ti prego, devi guadare meglio».
Lo assecondai per farlo contento, osservai la macchina grigia e le sue ruote
impazzite m’ipnotizzarono. Poi un flash, fu come ricevere un pugno in pieno
stomaco, sentii il corpo irrigidirsi, la mano del ragazzino stringere più
forte la mia. Con un nodo in gola mi girai alla ricerca della mia Audi. Non
c’era traccia.
Calai gli occhi annebbiati dalle lacrime sulla macchina nel fosso. Il bimbo
mi tirò indietro.
«Ci dobbiamo allontanare, ora arriva il fuoco».
Non finì neppure di dirlo che la macchina esplose, una vampata rosso sangue
illuminò il cielo pomeridiano appesantito dalle nuvole.
Guardai quel bimbo nuovamente, non indossava più il pigiama a righe blu, ma
una tuta grigia e delle scarpe da ginnastica bianche e nere.
«È tutta colpa mia», disse lui con un tono così accorato che mi spezzò il
cuore. «Stavo scappando da mia mamma, avevamo litigato. Non ho guardato la
strada... è tutta colpa mia».
Rivissi tutto in un secondo. La pesantezza dei ricordi mi schiacciò al
suolo. Mi guardai intorno, il paesaggio era cambiato, c’era un sole
brillante che si prendeva gioco di me, avevano pulito la strada e aggiunto
un guardrail nel punto in cui io...
«Quanto tempo è passato?», chiesi al ragazzino che ora sembrava avere circa
tredici anni.
«Cinque anni. Io abito ancora laggiù», m’indicò un punto lontano una ventina
di metri da dove occhieggiava una villetta seminascosta dai pini.
«Oggi è quel giorno... sei prigioniera di questo momento. Non sei mai riuscita
a vedere oltre, fino ad ora». Era visibilmente commosso. Ma anche tormentato
e in cerca di perdono. Perdono che non ero in grado di concedergli.
«Sono tanto stanca», dissi sentendomi sempre più leggera.
Poi fu solo buio.