Camminava
lungo il ciglio della statale, nella notte di fine autunno. Laria era umida ma non
fredda, anche se il cielo sopra di lui era oscurato, le stelle nascoste da strati di
nuvole o forse solo dalle luci che gli si accendevano attorno. Non erano molte, pochi
lampioni e case sparse nei paraggi, ma si fondevano al chiarore delle due città, fino a
diffondere una penombra scura su ogni cosa, che non illuminava nulla ma permetteva di
riconoscerne i contorni. Tutto sommato era meglio così, le auto di passaggio potevano
almeno vederlo, mentre procedeva a pochi passi da esse. Eppure rimpiangeva quel vuoto
nero, dove egli avrebbe voluto riconoscere le stelle. Ma non poteva.
Non era la prima volta che si ritrovava lì, a camminare come un pazzo lungo il bordo
della strada, di notte, per coprire quei dieci chilometri circa che separavano le due
città, quella in cui era nato e cresciuto e quella in cui ora era costretto a vivere. Di
tanto in tanto, il lunedì, si attardava e i mezzi di trasporto erano già a riposo: non
rimanevano allora che le gambe a guidarlo, verso ledificio in cui abitava ma che non
avrebbe mai potuto chiamare casa.
Odiava quel luogo, ne era disgustato ogni
giorno di più, ma non se ne poteva andare, non ancora. E mentre camminava nel buio, dopo
una serata coi pochi amici che ancora gli restavano, si lasciava andare alle sue fantasie,
perché gli rendessero più breve il percorso e più piacevole la solitudine.
Il vuoto era totale attorno a lui. Dalla notte non spuntavano che poche case, disseminate
in quello spazio deserto: se le ritrovava accanto allimprovviso, come un muro che
riempiva laria al suo fianco e gli offriva, per qualche metro, un riparo, un punto
di riferimento concreto. Il resto non era che una strada diritta, dal buio al buio, in
mezzo ai campi pianeggianti. Le ultime colline erano già rimaste indietro, nel suo
passato, e il suo percorso proseguiva invariabile, nella monotonia priva di orizzonti. Di
tanto in tanto gli abbaglianti di unauto di passaggio lo inondavano di luce,
accecando per un istante il suo groviglio di pensieri. Poi svanivano, come un lieve ronzio
in lontananza.
La prima volta si era sentito a disagio, incamminandosi per quellassurdo
pellegrinaggio notturno, senza uno straccio di marciapiede e col vuoto ovunque. Adesso si
era abituato, non gli appariva che una follia come unaltra, smarrita tra le tante
che aveva fatto in vita sua. Ignorava le poche auto, si disinteressava delle case
sigillate dallora tarda, andava avanti senza curarsi di nulla in particolare. Il suo
mondo erano i suoi pensieri, il resto non aveva più alcuna realtà, almeno non durante
lora e un quarto che spendeva in quel modo. Rimpiangeva quel che si lasciava alle
spalle e disprezzava quel che lo attendeva allarrivo. Nel mezzo, non cerano
che vaghi sogni.
Tutta la vita sembrava essere rimasta indietro, nella città che aveva dovuto lasciare,
contro la sua volontà. Cerano le colline che aveva sempre amato, le strade larghe e
quelle più ripide e aspre, che si arrampicavano verso le cime. Cerano alberi a
costeggiare ogni viale e ampi parchi nel suo centro tranquillo. Poteva vedere le stagioni
cambiare nel colore delle foglie e nel profumo dellaria, come aveva contato il
trascorrere degli anni nel fianco del colle di fronte alla finestra. Deserto quando era un
bambino, a poco a poco si era coperto di nuove case, le vecchie erano state restaurate, le
strade asfaltate e ormai, in un futuro troppo vicino, la città lo avrebbe reclamato come
sua proprietà.
Tutto questo si lasciava alle spalle, assieme ai ricordi. Nel nuovo posto in cui doveva
vivere, invece, non cera nulla di tutto ciò. Pianura stesa allinfinito,
strade strette tra edifici di pietra, rari alberi e striminziti, come se laria
pesante li avesse soffocati, togliendo loro il respiro. E troppa folla, troppi rumori per
un eremita come lui, maniaco del silenzio e della solitudine. Nei suoi pensieri quella era
la città della morte, sognava di vederla deserta, di spazzare via quella gente che
passava urlando sotto la sua finestra, a ogni ora del giorno. Sognava, perché nella
realtà ne era prigioniero.
Quella notte, mentre camminava sotto la cupola vuota del cielo, si domandava perché non
riuscisse mai a vedere le stelle. Ogni volta cerano le nuvole, oppure le luci erano
troppo diffuse per lasciar passare quel chiarore sottile. Sarebbe stato il solo aspetto
positivo di quella follia, ammirare sopra di sé un cielo stellato. Ma non ne aveva mai
avuta lopportunità. Lo spazio che lo sovrastava restava sempre vuoto, desolato, e
non vi ritrovava le costellazioni tanto amate da bambino, quelle che si era abituato a
osservare dalla finestra della sua casa di un tempo. Nero uniforme, a volte sbiadito dai
riflessi delle luci artificiali. Non cera altro, lassù.
Fu in uno strano stato danimo, fatto di angoscia e di aspettativa immotivata, che
raggiunse le prime sagome scure, dove la periferia della città si ammassava e cominciava
a innalzarsi, addensandosi come le nuvole di un temporale. Si sentiva soffocare, in quel
luogo. La strada era ancora ampia ai suoi lati, ma non cera più la vastità spoglia
della campagna, dove il vento spaziava tranquillo. Una vaga claustrofobia lo prendeva
sempre, in quei momenti, e anche allora la sentiva crescere dentro di sé, sorda e
maestosa come una mareggiata. Procedeva a capo chino, per non esser costretto a vedere in
continuazione quei muri che si ergevano accanto a lui, sempre più fitti.
Aggirò il primo semaforo, piegando in una via laterale, poi superò la strada più
grande, dove non cerano più auto, a quellora di notte. Nello spiazzo sgombro,
in cui a volte si teneva il mercato, laria era ancora sufficiente, ma poco dopo la
morsa della pietra e del cemento si fece più stretta, lo stritolava con la sua
implacabile freddezza. Era da solo, da una ventina di minuti non incrociava nessuno,
neppure un veicolo di sfuggita. Il silenzio era grande.
Fu allora che se ne accorse, nella penombra della via illuminata da radi lampioni. Quelle
case, come gusci vuoti di un mondo abbandonato, parevano fissarlo dalle loro finestre
cieche, sbarrate dalle imposte o dalle tapparelle. Lo scrutavano, mentre camminava in
mezzo a loro, senza parlare, senza fare rumore. Era davvero la città della morte, in quel
momento. Attorno a sé non vedeva che oggetti inanimati, cadaveri abbandonati qua e là,
inerti, come la sporcizia che rimane sul pavimento dopo una festa, o sui tavoli quando gli
ospiti se ne vanno. Era lui il solo a vivere, in quellistante, come se il resto del
mondo lo avesse dimenticato, lasciandolo indietro per noncuranza.
Avrebbe preferito sentire un suono, intravedere una sagoma in movimento, qualunque cosa
potesse rompere lincantesimo di angoscia che la città gli tesseva attorno, come un
sudario. Gettò gli occhi verso il cielo, ma anchesso era vuoto, morto. Sapeva bene
che dietro quelle pareti, nel caldo delle loro stanze, altre persone dormivano, esseri
umani come lui, gli stessi che di giorno passavano sotto le sue finestre a gridare, a
disturbarlo nelle sue riflessioni e nei suoi studi. Ma adesso parevano tutti dissolti nel
nulla, come se la notte li avesse inghiottiti, o forse quelle stesse case, carcasse di
pietra e di cemento, che a loro apparivano tanto comode e accoglienti.
Sentiva quegli sguardi su di sé, occhi irreali che lo fissavano da ogni lato, mentre
avanzava nella via abbandonata, niente più che un budello di acciottolato, affondato
nellaltra materia inerte della città. Un lieve soffio di vento gli strappò un
brivido, imprevisto nella quiete dellaria, ma forse non fu altro che una vana
suggestione, lorrore che ogni cosa gli bisbigliava allorecchio. Non cera
un solo albero, non un segno di vita che non fosse stato creato dalla mano delluomo.
E adesso, quando il suo costruttore si era ritirato per riposare, aveva lasciato dietro di
sé solamente quella folle parodia di esistenza, lo spettrale segno del suo passaggio sul
mondo. Persino il cielo, lassù, era vuoto di stelle, vuoto di ogni luce che non fosse
artificiale.
Avrebbe voluto gridare, per infrangere quellorrore, ma non poteva fare altro che
avanzare, a testa bassa, nel silenzio innaturale della città dormiente. O della città
morta? Aveva la vaga impressione di aggirarsi tra le file di lapidi di un cimitero, o tra
le pareti coperte di loculi muti. Mancava solo il sottile odore di fiori in disfacimento,
poi laffresco della necropoli sarebbe stato completo.
Eppure non era che suggestione, se lo ripeteva di continuo. Le case non lo potevano
fissare, i loro muri non lo potevano stringere in una morsa gelida. La vita respirava
lentamente, appena oltre uno strato di mattoni, come aveva sempre fatto. Ma nella strada
non ne rimaneva traccia, cera soltanto il vuoto della notte, col suo silenzio e la
sua luminosità falsa, innaturale. Laria odorava di polvere e di stantio, viziata
come in una stanza affollata, dove respirano troppe persone.
Era ormai giunto alla piazza principale, quando il cielo si aprì come un occhio, a
scoprire la luna, la sua pallida pupilla. In quella luce arcana, ogni cosa sembrò perdere
di realtà. La città non era che un mausoleo scoperchiato, che lo opprimeva con la sua
pietra morta. Era il solo vivo in quel luogo e si sentiva smascherato, denudato davanti a
se stesso da quello sguardo implacabile. Doverano le altre persone, che abitavano
quella necropoli? Ma non cera nessuno, nessuno rispondeva al suo richiamo muto:
soltanto la luna, con la sua divina indifferenza. Come erano lontane le sue colline, con
la loro vita! Con langoscia che lo soffocava, cadde in ginocchio, sul gelido
selciato, e pianse in silenzio.
In alto, locchio si chiudeva, impassibile, ignorando quel dolore anonimo, uguale a
tanti altri.