Non ricordo con
precisione quando mamma e papà cominciarono ad andare fuori di testa. Mia
madre fu la prima a perdere qualche rotella; iniziò a chiamare le galline
per nome, ad alzarsi alle tre di notte per la messa e a nascondere la
dentiera nel forno. E a preparare quantità industriali di prosciutto in
gelatina.
Mamma era sempre stata una gran cuoca, ma l’arteriosclerosi inibì il suo
estro culinario. Divenne monotematica.
«Oggi prosciutto in gelatina», gracchiava all’ora di pranzo, tutti i santi
giorni, e io e papà ciabattavamo in cucina scuotendo la testa.
Niente più cotechini, agnolotti o tiramisù. Eppure, povera donna, cosa
potevamo fare? Il dottore ci aveva detto di assecondarla, così io nascondevo
la poltiglia nauseabonda in un tovagliolo e papà buttava giù senza fiatare,
poi si alzava da tavola e si faceva la puntura di insulina in pancia,
sospirando: «Poveri noi. Oh, se non ci fossi tu, Vittorio. Maledetta
vecchiaia».
Vittorio sono io. Figlio unico, ho sempre vissuto con i miei in questa
cascina isolata.
Papà sbiellò poco dopo. Capita. Quando un coniuge muore o
rincoglionisce, spesso l’altro lo segue a ruota.
Li accudivo. Non potevo certo chiuderli in uno di quegli ospizi che puzzano
di piscio.
Però, a un certo punto, l’ossessione di mia madre per il prosciutto in
gelatina divenne snervante. Un giorno, dopo l’ennesimo, mesto pranzo,
annunciai: «Mamma, da oggi si cambia menù! Non ti compro più la gelatina,
dobbiamo variare». Fu una pessima idea.
Per qualche tempo le cose andarono bene. Poi, un giorno, rientrai a casa
dopo una mattinata trascorsa nell’orto. Mamma e papà stavano pranzando. Sul
tavolo c’era un vassoio pieno di una roba di un colore... be’, lasciate che
vi dica una cosa: era un colore che non dovrebbe esistere.
Papà affondò il cucchiaio e ingurgitò quella polpa con una suzione rumorosa.
«Cazzo è quella roba?» Mi avvicinai, capii e mi piegai in due, scosso dai
conati. Era muffa, un groviglio peloso e sinistro; al di sotto, nel
punto in cui mio padre aveva piantato il cucchiaio, intravidi il giallume
rosato del prosciutto in gelatina.
«Eeeh, Vittorio... pensavi di fregarmi, ma io mi son fatta la scorta in
cantina!» sbottò mamma.
Mi preoccupai. Di brutto. La cantina era inagibile da anni, un posto umido e
malsano, e le muffe sono organismi imprevedibili, dagli effetti bizzarri
sull’organismo.
«È buona, Vittorio», disse papà. «Assaggia».
«D-da quanto tempo mangiate questo schifo?» balbettai.
«Da un po’», sussurrò mio padre con un ghigno. Si alzò in piedi, si tirò su
la maglietta e si fece la puntura di insulina. La siringa sparì con un
plop ributtante nella sua pancia. In quella che era stata la sua pancia.
Adesso era una massa ocra semitrasparente, un enorme budino avariato ripieno
di prosciutto nerastro.
Urlai. Mamma colò dalla sedia sul pavimento, ridacchiando. Divenne
una pozza, un enorme soufflé con gli occhi.
«Assaggia!» urlarono i miei genitori, fondendosi in un’unica massa
tremolante. «Assaggia!»
Poi, come un’onda, mi furono addosso.