Non posso dormire

Mi sono svegliato di soprassalto, immerso in un lago di sudore. Scrollo il capo, come volessi scacciare l’incubo che mi ha tormentato, e che ricordo distintamente.
Accostavo l’auto al marciapiede, incurante delle proteste di Stefania, che mi soffiava addosso uno sbuffo di fumo acre, prima di schiacciare nervosamente il mozzicone. Spalancavo la portiera e salivo una scalinata, mentre lei mi urlava dietro parole che non riuscivo a distinguere. Giunto in cima, rimanevo qualche istante immobile, fissando alla luce della luna la piazzetta deserta, le saracinesche abbassate e le poche macchine parcheggiate in prossimità di una rete metallica lacerata. Rabbrividivo per un soffio di vento, prima di dirigermi verso la lama di luce che filtrava sotto una serranda scrostata. Avevo appena appoggiato le nocche sul metallo, quando la saracinesca si sollevava con fragore, ed un uomo con la barba incolta ed una tuta sporca d’unto mi porgeva silenziosamente un cric. Lo afferravo, e restavamo così, le nostre mani strette attorno alla superficie fredda, come due corridori che si stiano passando la staffetta. Poi mi giravo e tornavo lentamente sui miei passi.
Mi devo stropicciare un paio di volte gli occhi arrossati, prima di spalancarli e fissare lo schermo del televisore, che avevo lasciato acceso, sperando che mi tenesse sveglio. Inutilmente. Raccolgo il telecomando, e lo punto come fosse una pistola verso la tv. Non voglio dormire, ho paura di precipitare di nuovo nell’incubo. Temo che, se dovessi addormentarmi di nuovo, il sogno riprenderebbe dal momento in cui si è interrotto. Adesso mi alzo, mi faccio una doccia e preparo una macchinetta di caffè forte. Invece, mi appoggio al cuscino madido di sudore, un braccio sul volto.

Guidavo piano, impassibile al diluvio di accuse e recriminazioni di Stefania, che accendeva e spegneva una sigaretta dietro l’altra, tanto che l’abitacolo era diventato irrespirabile. Lei si passava una mano fra i lunghi riccioli neri e minacciava di rivelare la nostra relazione a mia moglie, se non mi decidevo a farlo io, una buona volta. D’un tratto, cominciava a scrollarmi, indispettita dal mio ostinato silenzio. Allora, scrutavo dallo specchietto retrovisore la tangenziale deserta ed un lontano cavalcavia. Senza divincolarmi dalla sua stretta, rallentavo: le sue mani ricadevano inerti, mentre mi fissava sconcertata. Scendevo dall’auto ed aprivo il cofano. Afferrato il cric, mi chinavo, impugnavo il grosso chiodo che avevo nascosto nella tasca del giaccone, e lo affondavo nella ruota, che cominciava ad afflosciarsi. Lei era in piedi, alle mie spalle, e mi domandava con un filo di voce cosa fosse successo. Mi alzavo senza voltarmi e sollevavo il cric. Attento a non calpestare la chiazza appiccicosa che dalla nuca di Stefania si spandeva sull’asfalto, scrollavo la sua borsetta, vuotavo il portafoglio e mi ficcavo in tasca il suo cellulare, poi mi allontanavo a piedi verso il cavalcavia, il cric insanguinato nascosto sotto il giaccone. Seduto sul letto, gli occhi chiusi, ripeto a memoria il trafiletto che ho letto e riletto per tutto il giorno. Secondo la polizia, la giovane donna uccisa la notte prima era rimasta in panne sulla tangenziale, e non aveva potuto sostituire la ruota sgonfia perché la sua auto era priva di cric. Aveva accettato l’aiuto di qualcuno, ignara che fosse uno dei tanti balordi che popolano quella periferia degradata, e volesse solo derubarla. Alla reazione della vittima, l’aveva selvaggiamente colpita, prima di allontanarsi con un misero bottino e l’arma del delitto. Niente altro. Sono salvo, nessuno può risalire a me, non ci sono prove. O forse sì. Adesso lo so, se mi addormento sono certo di rivivere il momento del mio unico errore, quello che può condannarmi. Ero io che guidavo l’auto di Stefania, e lo specchietto retrovisore era spostato all’altezza dei miei occhi, non a quella di una donna bassa e minuta. Se ho lasciato un’impronta su quello specchietto, non avrò scampo: la polizia continuerà l’inchiesta, scavando nel passato di Stefania, e finirà per scoprire la mia esistenza. Solo allora potrò lasciarmi andare a questo insopportabile torpore e scivolare dolcemente nel sonno. Ma durerà poco, perché qualcuno suonerà alla porta, nel cuore della notte, e mi sveglierà, finalmente.

Enricoelle