Il soldato Michael stava seduto per terra, all’angolo della camera. Nudo e coperto di sangue, fissava assente il suo fucile semiautomatico. “Che cosa hai fatto, Michael?” gli sussurrò quella voce.
A pochi chilometri dal confine con l’Iran, nella provincia di Herat in Afghanistan, nella base militare Fox-One non era rimasto nessuno. Soltanto il sangue poteva testimoniare l’efferatezza di un massacro appena compiuto. E di ciò che rimaneva di qualche centinaio di uomini inspiegabilmente spariti nel nulla.
“Ma noi sappiamo dove sono. Vero Michael?” continuò il sussurro.
L’arma da lui imbracciata non aveva sparato un solo colpo. Michael cercava di ricordare, di pensare. Ma né un attacco nemico né la follia di un solo uomo potevano giustificare quanto accaduto. E inoltre, le pareti dei prefabbricati non mostravano alcun segno di combattimento. Nessuna infrazione, nessun incendio. Solo un fiume rosso, fermo e rappreso lungo la stanze.
“Hai fatto un bel casino, ragazzo mio. Davvero un bel casino.”
La voce picchiava con insistenza nella testa di Michael. Poi un’altra voce, questa volta più lontana e metallica, cominciò a farsi spazio tra le intercapedini delle finestre: “Qui Tango-Charlie a Fox-One: rispondete. Passo.” Era la radio del campo, ancora funzionante, nonostante tutto.
“Vai a rispondere, Michael. Non facciamoci desiderare.”
Il soldato cominciò ad alzarsi incerto, cercando di non scivolare sulla poltiglia rossastra. Uscì dalla camera e andò fuori. E quello che vide fu qualcosa al di fuori d’ogni maligna immaginazione: le pelli di tutti i suoi commilitoni lastricavano, per quanto possibile, tutta l’area interna al campo.
Ma questo non sembrò disturbarlo ulteriormente, e il sodato Michael proseguì a piedi nudi sulle pelli di Joe, Diana, Stefan, George, Lisa e tanti altri ancora. Proseguì sempre con il fucile tra le braccia, dritto verso la ricetrasmittente.
“Qui base sperimentale Fox-One a Tango-Charlie. Passo.” disse Michael.
“Chi è all’apparecchio? Passo.” domandò irritato un ufficiale.
“Sono il soldato Michael. Credo. Abbiamo fatto quello che dovevamo. Ho aperto il vaso, sono stato io, è colpa mia”.
“Michael, Michael, Michael. Che cosa hai fatto?” si intromise quella voce.
“Non ho fatto niente! Ho eseguito gli ordini, ho aperto il vaso di Aeshma e poi, e poi...” urlò Michael rantolante, prima di sedersi a terra.
La radio smise di gracchiare: ormai non c’era più nulla da aggiungere. E in lontananza già si sentiva il rombo di un B-52 pronto a sterilizzare la zona, come previsto, se qualcosa fosse andato storto. Ma anche questo non sembrò turbare l’animo del soldato.
“Ragazzo mio, quel che è fatto è fatto. Chiedilo ai tuoi amici.” disse il sussurro. E Michael cominciò a lasciar cadere l’arma, guardandosi il ventre. E dentro di esso, centinaia di corpi prigionieri boccheggiavano come affamati d’aria tra le viscere del soldato Michael.
“Ne avevi di fame. Non è forse vero, ragazzo mio?” domandò la voce. E poi il fuoco cancellò ogni cosa.