- Cosa fanno? - mi chiede Anna.
- Aspettano.
Fuori, i malati sono fermi. Li vedo attraverso la finestrella, hanno le bocche spalancate.
Le loro braccia scheletriche sono tese nella nostra direzione. Grondano sangue.
Dentro il capanno cè solo qualche attrezzo e scatoloni vuoti. Ho gettato la pistola
in mezzo alla stanza. Lho trovata due chilometri fa, dentro una volante, accanto al
corpo maciullato di un poliziotto. È rimasto un colpo solo nel caricatore. Inutile.
- Non voglio morire! - mi dice.
Corro da lei e labbraccio. Le avevo promesso una vita dignitosa, lontana dalla
povertà e dalla merda che aveva sempre dovuto ingoiare. Invece, ora posso solo stringere
il suo corpo squassato dal pianto.
Alla TV avevano detto che tutto inizia con una specie di voglia color caffè. Ti compare
addosso e dopo qualche ora mangi la gente. Non si sa da dove è sbucato il morbo, né come
ha fatto a contagiare il primo uomo. Si trasmette con il morso dei malati, ma quattro
giorni fa, mentre fuggivamo per un paese abbandonato, ho sentito la voce di una radio
venire da dietro una finestra: affermava che il germe poteva sopravvivere nellaria.
Voglio perdermi negli occhi verdi di Anna, sulle sue labbra meravigliose.
Sotto il mento.
- Non posso vivere senza di te - mi sussurra con uno sguardo triste.
Voglio piangere. Tuffo il viso nei suoi capelli, ci baciamo fino a perdere il fiato.
Vorrei morire in questo istante, ma non succede. Cerco di reprimere il dolore e riesumo un
sorriso.
- Neppure io - rispondo, alla fine.
Torno a controllare la situazione attraverso la finestrella, poi mi lascio cadere
nellangolo opposto.
Distrutto.
Anna è rannicchiata, osserva in silenzio la mia guancia destra. Entrambi abbassiamo lo
sguardo sulla pistola.
Un colpo solo.
È la prova damore più difficile.