Nella
stanza della ragazza cerano un letto, una piccola libreria, una normale scrivania.
Un armadio con cassettiera, una porta e una finestra.
Attraverso la finestra poteva vedere un albero e un ritaglio di cielo, ma erano come
figure che venissero proiettate su uno schermo. Dietro cera soltanto il buio.
Profondo, vuoto e senza fine.
E oltre la porta, lo stesso.
E poi cera lo specchio.
Lo specchio da cui vedeva la camera e la ragazza di cui lei era soltanto il riflesso.
Si chiamava Nadia e lei la odiava. Ogni mattina alle sette la madre veniva a svegliarla.
Nadia si rigirava nel letto e, sgarbatamente, le intimava di andarsene.
Nadia diceva sempre alla madre di andarsene.
Il suo riflesso pensava a quanto lei, invece, le avrebbe voluto bene.
Nella sua stanza non veniva mai nessuno.
Quando Nadia si preparava, la costringeva a vestirsi e truccarsi insieme a lei per ore.
Poi usciva, nel mondo. La ragazza che era il riflesso di Nadia invece apriva la sua porta
e rimaneva sulla soglia a fissare il buio.
Ma in quei momenti almeno poteva muoversi liberamente per la stanza, toccare gli oggetti,
sfogliare i libri. Su un diario annotava ogni suo pensiero. Più di ogni altra cosa si
chiedeva come fosse il mondo di fuori e che cosa fosse esattamente il cielo.
La notte, quando Nadia dormiva, lei immaginava di trovare il modo di passare oltre lo
specchio. Poi, nel sonno, prendere la ragazza e portarla al di qua.
E lì bloccarla per sempre, per poter vivere la sua vita.
Una mattina, la madre mise la testa nella camera di Nadia e la chiamò.
Subito lei si alzò a sedere sul bordo del letto, e stropicciandosi gli occhi disse con
affetto:
-Arrivo, mamma.-
Lo specchio era in frantumi.