Amorfide

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2005 -edizione 4

Stanza d’albergo. Sola. La vacanza s’annuncia splendida. Doccia. Specchio. Non c’è male, i seni tengono. Trent’anni e neanche un grammo di cellulite. Rasarla o non rasarla? Questo è il problema. Oggi, una spuntatina.

 

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Stanza d’albergo. Solo. La vacanza s’annuncia splendida. Doccia. Getto caldo. Rigenerante. Mi piace questa schiuma al pino, è densa, profumata. Muscoli sodi, ben disegnati. Costa, ma ne vale la pena.

 

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Vestito nero. Trionfale spacco sul fianco. Calze a riflessi perla. Nessun gioiello. Quando si hanno questi occhi verdi, a che servono? Rossetto fragola. Pronta.

 

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Completo crema. Camicia fragola. Rasato di fresco. Sorriso d’autocompiacimento. Gel sui capelli corti, neri.

 

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Piazza Navona. Accavallo le gambe. Lenta, alzo un gin tonic.

 

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Piazza Navona. Respiro. Aria di velluto, stanotte!

Sguardo distratto. Prendo una sigaretta. Cerco l’accendino in borsa...
Click!
-Grazie.
-Turista?
-Sì. Lei?
-Anche. Di dove?
-Lontano. Lei?
-Anch’io.
-Quante cose in comune!
Ridiamo.
-Da me o da te?
-Come corre!
-Abbiamo solo 300 parole.
-Che distratta! Da te - abbassando le ciglia.

 

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-Incredibile, lo stesso albergo!
-Che pelle dolce...
-Non subito.
-Ti prendo sul tappeto. Dai spogliati!
-Spogliami tu. Delicatamente, ecco così...
-Nuda: bellissima, un corpo da favola! Spogliati ancora.
-Aspettiamo.
-Non ce la faccio.
-Incorregibile...
Porto la mano alla testa, trovo il gancetto. Ziiipp! giù fronte, naso fino al pube. Il rivestimento da umana scivola via e sguscio fuori, splendidamente amorfide! Così fai tu, ziiipp! il bel corpo di maschio s’apre e appari nella tua forma, che poi è la mia. Su Amorfide siamo tutti uguali, un impasto gelatinoso, frusciante come un groviglio di serpi che s’accorpano e rimescolano a seconda dell’umore. Forma no, ma sentimenti li abbiamo. Ci gettiamo l’uno/a sull’altro/a in un amalgama di piacere.
-Caro/a...
-Sì.
-La prossima vacanza cambiamo pianeta?
-Perché?
-Questa Terra comincia a stancarmi.
-Come vuoi, caro/a.

Giovanni Buzi