Angelo nero

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2005 - edizione 4

Nella notte illune, sotto un cielo di noia, la città sonnecchia senza mai serrare entrambi gli occhi. Sul tetto della grande e splendente stazione, nascosto da un mantello nero e lambito dalla pioggia calda e sottile, un uomo osserva gli ultimi scampoli di vita cittadina. Come uno spettro, si muove furtivo fra le ombre sottili, scomparendo dietro guglie e cornicioni, allungando lo sguardo sulla piazza antistante e lungo le strade fra le alte figure di cristallo. A tratti si rifugia nell’oscurità, rimpiangendo la delicata luce delle candele di cera e maledicendo l’assurda modernità.
L’attesa è frustante, ma l’uomo è determinato a compiere la sua opera. Mille burattini spuntano a ogni battito d’ali dei piccioni intorno. I fili del loro destino scorrono fra le dita sottili del figlio di Atropo. Sottili come capelli, i crini scivolano fra ombra e luce, s’intrecciano, s’amano e s’odiano, cadono e muoiono sotto i colpi di spazzola.

Un cerchio azzurro e un profumo inebriante – i lunghi canini lucenti e golosi si mostrano al cielo – alti tacchi che rimbombano sul marmo: ecco la pienezza dello spirito. L’uomo si protende sul cornicione, sfidando il suo equilibrio. La donna attraversa rapida lo spiazzo, domando i lunghi capelli biondi nella smania di giungere al binario giusto.
La bestia si lancia nel vuoto, sorretta dalle sue ali di stoffa e da mani invisibili, svanendo dopo pochi istanti di volo. Il nero sipario cala fra vento e pioggia sugli occhi nocciola della donna. Avvolta in una spessa nebbia, scompare nel lampo di un fulmine lontano.
Un ombrello azzurro, trascinato via dal vento, percorre solitario le strade del centro.

 

Nella notte, dal mio palco
intono l’ultimo canto.
Eccomi, sono l’angelo nero
primo tenore del destino.
Squillano le sette trombe
e la Morte dirige la sinfonia.

Pancrazio Antonio Conte