"Schifosissima neve, maledetta strada, stupido lavoro,
porc..."; in meno di mezz'ora Enrico aveva proferito tante di quelle imprecazioni
che, usate con parsimonia, ad un brav'uomo timorato di Dio sarebbero bastate per un mese.
Forse però non aveva tutti i torti; era la terza domenica di Novembre, il tempo era
peggiorato e su tutto l'entroterra nevicava copiosamente. Enrico Bottino era sicuramente
il miglior articolista e fotografo di tutta la redazione di "Folklore di
Liguria", una rivista specializzata in sagre di paese, manifestazioni popolari,
antiche tradizioni, eccetera, e ora, grazie a queste sue qualità, si trovava, alle otto e
mezza di un freddo mattino invernale, a percorrere gli innumerevoli tornanti della strada
che portava a Pentema, un minuscolo paesino arroccato sui monti liguri.
Ogni anno durante le festività, a Pentema si svolgeva una singolare manifestazione:
l'intero paese, praticamente quasi disabitato, si popolava di... manichini! Si trattava di
un vero e proprio presepe a grandezza naturale; tutte le vecchie case diroccate venivano
trasformate in bottega del fabbro, in osteria, in locanda e animate con manichini vestiti
con costumi d'epoca.
Nella piazza centrale del paese veniva montata la capanna con la Sacra Famiglia, i pastori
in adorazione e cori di Angeli, ma per ora era vuota e a Enrico, appena sceso dalla
macchina, dava un'impressione di immensa desolazione.
"Tutti gli anni pubblichiamo le foto del presepe e dei turisti ma questa volta voglio
qualcosa di diverso!" aveva tuonato Carlo, il caporedattore "Voglio le foto dei
lavori di allestimento, voglio vedere i paesani al lavoro mentre vestono i manichini e
abbelliscono le case"; d'accordo aveva detto Enrico ma dove cavolo erano finiti i
paesani? Cosa ci faceva quella mattina in centro al paese senza un'anima viva, con un
tempo da lupi e senza la minima idea di dove incominciare a fotografare? Forse era troppo
presto, ma sapeva che per montare il presepe ci volevano ogni anno parecchi mesi, strano
che i lavori non fossero ancora iniziati.
Un vago senso di inquietudine lo assalì mentre percorreva le strette stradine
acciottolate e coperte da un sottile strato di neve; aveva sempre pensato che qualcuno
custodisse il paese nei periodi morti, che vi abitasse in pianta stabile, ma Pentema
sembrava una vera Ghost Town, una cittadina abbandonata da secoli e ormai in rovina.
Avrebbe voluto scattare qualche rullino, intervistare poche persone e poi scappare,
arrivare a casa al caldo per l'ora di pranzo, ma più girava per il paese immerso in quel
silenzio di tomba più vedeva sfumare questa possibilità; non una parola, non un respiro
o il felpato passo di un gatto randagio si sentivano echeggiare nelle vie e la sensazione
di essere osservato aumentava ad ogni istante.
Un rumore di assi di legno sbattute, che in quel frangente assunse le sembianze del
fragore di un tuono, lo colse impreparato e mentre le sue gambe gli suggerivano di
scappare, il suo cervello si fermò a ragionare e i suoi occhi perlustrarono velocemente
l'ambiente. Il forte vento aveva fatto oscillare una persiana, forse malchiusa, e da
dietro i vetri impolverati un viso cereo lo fissava con occhi impassibili.
"Allora c'è qualcuno in questo schifo di paese" pensò Enrico, ma dovette
subito ricredersi; si avvicinò alla finestra e gettò, in rapida sequenza, prima uno
sguardo dentro la casa e poi un urlo di terrore: quella che lo osservava non era una
persona ma una testa! una testa di manichino infilata su una rastrelliera di metallo.
Enrico entrò cautamente nella stanza. Su delle rastrelliere, delle panche e dei tavoli
erano allineati i pezzi di innumerevoli manichini pronti per essere montati e vestiti.
Con passo rabbioso uscì dalla casa e si incamminò verso la macchina; al diavolo
l'articolo e quel dannato paese, se Carlo voleva delle foto, bé che se le scattasse da
solo le maledette foto, perché lui per oggi ne aveva avuto abbastanza!
Così pensando era quasi arrivato alla piazza e solo ora si era accorto che aveva smesso
di nevicare, ma in compenso una fitta nebbia aveva avvolto tutto il paese nascondendo alla
vista anche la sua macchina.
Era sicuro di averla posteggiata proprio lì, vicino a quel tombino, ma l'auto non c'era;
un rettangolo di terreno sgombro dalla neve testimoniava muto a suo favore, ma dove
diavolo era finita? Chi gliel'aveva rubata e soprattutto come aveva fatto visto che sulla
piazza non c'erano tracce di pneumatici?
Ora il suo problema principale era cercare un telefono pubblico (al ritorno si sarebbe
deciso a comprare uno stramaledetto cellulare) per chiamare qualcuno che lo venisse a
prendere ma soprattutto per denunciare il furto dell'auto, se di furto si trattava.
L'impresa si rivelò ardua, a dire il vero non un filo elettrico o telefonico, non un
traliccio guastavano l'aria di vetustà e abbandono dell'intero paese; ma come accidenti
facevano a vivere così pensò.
"Non abbiamo bisogno di luce e telefono noi" echeggiò una voce nella sua mente!
Il sangue gli si gelò nelle vene: intorno a lui non c'era nulla, solo la nebbia e la
neve.
"Eppure non me la sono sognata quella voce!" disse tra sé e sé ma già il
ricordo di strane storie e leggende sussurrate dai vecchi davanti al fuoco del camino si
faceva strada nei suoi pensieri; urlò, urlò per scaricare la tensione ma soprattutto per
farsi sentire dall'autore di quel macabro scherzo. "Vieni fuori, fatti vedere se ne
hai coraggio!". Furono orecchie umane quelle che raccolsero il suo grido di rabbia?
Fu voce umana quella che rispose alla sua ira con una sinistra risata di scherno?
Furibondo, Enrico girò tutto il paese, aprì tutte le porte (alcune a calci e spallate),
ma ovunque lo accolsero muti i manichini con i loro volti inespressivi, le membra
scomposte in gesti inconsulti.
C'era qualcosa di macabro in quelle figure, e qualcosa di strano nei loro vestiti: molti
erano smontati e spogliati, altri vestiti già con gli indumenti "di scena", ma
alcuni sembravano appena usciti da una vetrina del centro. Indossavano bei giacconi, gonne
eleganti, indumenti da trekking, qualcuno aveva indosso gioielli o preziosi orologi.
Uno dei manichini sembrava fissarlo con un'espressione di muta disperazione. E finalmente,
inconsciamente, inutilmente Enrico capì.
Era terrorizzato, la risata beffarda camminava ancora nel vento quasi a volerlo seguire.
Uscì correndo da una delle case, "La chiesa" si disse "Devo cercare la
chiesa del paese, lì troverò la soluzione".
Mentre arrancava nelle strette viuzze, scivolando ad ogni passo sulla spessa coltre di
neve, con gli occhi cercava in alto, sui muri, le targhe con i nomi delle strade; cercava
una strada intitolata alla chiesa o ad un santo e la trovò: "Via alla chiesa di
Sant'Anna", poteva essere la sua salvezza.
Correva a perdifiato e ormai non era più la sua immaginazione a giocargli brutti scherzi:
da ogni finestra, porta o anfratto, occhi di vetro lo scrutavano maligni, braccia e gambe
irrigidite da un anno di inattività cigolavano nel muoversi.
La vide e la riconobbe da lontano, l'austera chiesa con la torre campanaria svettante nel
cielo, il pesante portone dai picchiotti di bronzo a frapporsi tra lui e la salvezza; le
gambe gli cedettero sul sagrato e lui si trascinò fino al portone, provò ad aprire ma il
braccio non si mosse, come paralizzato, privo di forze: sembrava finto, di plastica, e lo
assalì la disperazione; non erano passi incerti nella nebbia quelli che sentiva? Lo fece
voltare un improvviso vociare di folla, come se si trovasse sulla piazza del mercato in un
giorno di festa, le urla degli ambulanti che elogiano la loro merce, un coro di bambini
che giocano a nascondino...
La mattina del 28 dicembre era limpida anche se fredda, i quattro ragazzi ridevano felici mentre la vecchia Panda saliva a Pentema. Era stata di Giorgio l'idea di visitare il famoso presepe dopo che aveva letto l'articolo su un vecchio numero di "Folklore di Liguria". Posteggiarono sulla piazza centrale e girarono tutto il paese rimanendo stupiti di fronte all'accuratezza della ricostruzione; solo di fronte alla capanna commentarono che forse qualcuno dei paesani aveva esagerato; in effetti tra una lavandaia al lavoro e un pastore adorante c'era un manichino veramente anacronistico: indossava un paio di jeans scoloriti, una camicia scozzese, un gilet milletasche e, inginocchiato davanti al Bambinello, reggeva in mano una macchina fotografica nuova di pacca!