Capita di
sentirsi osservati. Paranoia giustificabile, soprattutto considerando come, alle volte
senza accorgercene, siamo realmente spiati, fotografati, immortalati in un qualsiasi
momento del giorno. Telecamere a circuito chiuso, webcam, telefonini, microspie. La nostra
presenza, registrata e visualizzata chissà quante volte, dietro chissà quali schermi,
studiata ogni giorno da emeriti sconosciuti. Ma a tutto si fa l'abitudine. O meglio,
spesso si giustifica dietro la maschera della sicurezza e del controllo, questo abuso
quotidiano della nostra immagine.
È per questo, forse, che ci ho messo alcuni giorni per rendermi conto del passatempo
preferito della mia nuova vicina di casa. Preciso che "nuova" si riferisce non
tanto a lei, quanto al fatto che io da circa un mese, mi sono trasferita per ragioni di
lavoro, dalla città dove sono nata. Adesso vivo in una palazzina di circa otto
appartamenti. Niente di che, un vecchio condominio dei primi anni '70, abitato ancora, per
la maggior parte, dalle famiglie che per prime ci si sono trasferite, o meglio, insediate.
Una buona sistemazione, tutto sommato tranquilla, dove la preoccupazione maggiore è stare
attenti a passare sotto le finestre tra le 9.00 e le 10.00, orario in cui è autorizzata
la battitura dei tappeti, e, in generale, seguire le regole del condominio.
Insomma dopo qualche sera, tornando dall'ufficio, mi accorgo che la signora del quarto
piano ha la consueta abitudine di osservarmi mentre passo davanti alla sua porta.
All'inizio mi dico che è la solita vecchietta dimenticata, lo stereotipo del voyeurismo
condominiale, e che la mia nuova presenza la incuriosisce. Lo sopporto i primi giorni.
Ma dopo un mese continuo ancora a vedere ombre che si spostano dietro lo spioncino,
continuo a sentire la maniglia stridere abbassandosi e la fessura della porta allargarsi.
Come un orologio questa signora mi aspetta ogni sera al ritorno; mi ha studiato bene la
vecchietta! Ha già imparato i miei orari e non passa giorno in cui non sia lì ad
aspettarmi.
Ma stasera ho deciso di fare la mia mossa: molto gentilmente, le chiederò se ha bisogno
di qualcosa.
Già so quale sarà la reazione.
Arrivo, salgo le scale più lentamente del solito per darle il tempo di accorgersi del mio
arrivo (come se ce ne fosse bisogno) e davanti alla sua porta socchiusa, mi fermo e con
arroganza mal celata le domando:
- Buonasera signora, posso esserle utile?
Ed ecco la sorpresa. La nonnina, invece di richiudere prontamente, apre ancora un po' e
dal buio, dietro la porta, mi arriva una voce serena che mi chiede:
- Signorina, ho appena preparato il the, posso offrirglielo? - e sento che si sposta verso
l'interno, dando per scontata la mia risposta.
Non mi resta che accettare l'invito. - Almeno così, me la toglierò di torno - penso.
L'entrata è buia, ma dal fondo del corridoio arriva una fioca luce. L'appartamento è
come il mio, perciò mi oriento bene e mi dirigo verso quello che dovrebbe essere il
salotto. Da là in fondo infatti, mi giunge la voce dell'anziana donna che mi invita ad
accomodarmi.
In casa c'è uno strano odore, sembra brodo, ma vecchio di giorni, mischiato a
qualcos'altro. Non riesco distinguerlo e francamente non vedo l'ora di andarmene.
Quando arrivo in salotto, lei è già lì che mi aspetta, seduta dietro un tavolino di
legno, su una sedia imbottita. Sul tavolo ha preparato le tazze e la teiera, probabilmente
residui di un qualche servizio vecchio come lei.
Mi siedo e le chiedo scusa se prima in qualche modo l'ho spaventata. Lei non risponde e,
come se non avesse udito le mie parole, mi versa il the mentre io mi guardo attorno.
A fatica noto che sulle pareti la carta da parati è di un colore verde scuro con stampe
floreali. Persino la luce di una piantana ingiallita, nell'angolo di fronte a me, sembra
dare sul verdino. È molto cupo e intravedo soltanto le sagome dei mobili; anche la
vecchia, seduta in controluce, pare grigia e non riesco a definirne i lineamenti. Sul
tavolino e sulla sedia c'è uno strato di polvere incollata al legno e penso che le tazze
non devono essere tanto meglio. Perciò evito di bere, ma la cara avvizzita insiste
perché io prenda il suo delizioso the.
Mentre aspetto, sperando di potermi sottrarre alla bevuta, avverto alle mie spalle un
rumore provenire dal corridoio, come un veloce graffiare sul pavimento in legno. Mi volto,
ma non vedendo niente le chiedo:
- Ha un gattino, signora?
La risposta nuovamente non arriva. Perciò mi dico che prima butto giù un sorso, prima
posso uscire da quest'appartamento stantio. Avvicino la tazzina alla bocca ostentando un
mezzo sorriso e trattenendo il fiato. Mando giù velocemente e all'istante mi accorgo che
quello che mi ha rifilato non è affatto the, ma brodo e per giunta freddo, tanto che,
adesso, vedo bene i pezzetti di grasso che galleggiano. Scossa da un conato di vomito, mi
alzo di scatto e le ringhio in faccia:
- E' brodo, sant'iddio! Ma è matta?
Così dicendo sento ancora da dietro quel frettoloso zampettare e, girandomi cercando la
bestiola, mi alzo e ne approfitto per andarmene da quella tana ammuffita. Ma lo stomaco mi
si contorce per il brodo acido e vengo sopraffatta da un capogiro.
Appoggiandomi allo stipite della porta, guardo dietro di me la padrona di casa, avvelenata
dall'odio puro che sento in questo momento. Fissandola così però, piccola e scarnita
capisco che è solo una poveretta abbandonata, una rimbambita, che probabilmente non sa
più neanche quello che fa e decido che non ne vale la pena, che è meglio andarsene senza
tante storie.
Ma le gambe non mi reggono, sono come separate dalla mia volontà e il primo passo che
faccio si risolve in una rovinosa caduta a terra.
- Forse quel brodo era andato a male da anni - medito, ancora incredula della situazione,
con una vena d'ironia. Così pensando cerco di rialzarmi, ma anche le braccia, puntellate
a terra gattoni, sembrano addormentate. Non mi tengono e sbatto la faccia sul parquet
appiccicoso.
Prima di perdere i sensi, faccio in tempo a vedere un unghia, no, un artiglio grande come
un mio dito spuntare dalla porta in fondo al corridoio. Sono quattro gli artigli,
attaccati ad una grossa zampa pelosa.
- Il gatto? - mi dico con un filo di voce. - Maledetta vecchia, maledet...
Mi risveglio, come nel più classico dei cliché horror, su un vecchio letto di ferro, il
corpo steso su un materasso incrostato da Dio solo sa cosa, braccia legate alla testiera e
gambe unite tra loro da svariati giri di nastro adesivo.
Non voglio credere che stia succedendo davvero, ma i ricordi sono nitidi, so perfettamente
cosa è successo e come sono finita qui.
La vecchia. Ho solo lei nella testa; lei e il suo gattaccio rognoso.
- Cosa può volere da me quella pazza decrepita?! - e, quasi rispondendo alla mia
riflessione interiore, spunta da dietro la mia testa proprio lei, fasciata nel suo golfino
di lana.
Mi si avvicina e, appoggiando la mano incartapecorita sul materasso, mi fa pacatamente:
- Ma cara signorina, non si deve agitare, le fa male alla salute. Lei è giovane, deve
volersi bene.
Non so se sono più sconcertata o più desiderosa di metterle le mani attorno al collo e
stringere, stringere forte finché... Interrompe i miei pensieri dicendomi:
- Lo sa signorina che, quando si diventa anziani come me, non c'è più nessuno disposto a
farci compagnia? Solo gli animali ci restano vicino e noi dobbiamo esser loro grati e fare
in modo che stiano bene.
Continua:
- Qualche anno fa ho trovato il mio piccolo compagno fuori dalla porta e da quel giorno è
stato con me. Non posso neanche pensare di perderlo! Solo che negli anni, poverino, è
tanto cresciuto e io con la mia pensione non posso comprargli tutto quello di cui ha
bisogno...
Lei continua a parlare, spiegandomi quanto bene vuole al suo "micetto" e che se
fa quello che fa è solo per lui (e io penso: - Per te, brutta strega!) e nel frattempo,
ancora intontita dalla brodaglia velenosa, mi guardo intorno in un misto di disperazione e
di angoscia. Di fronte a me una porta chiusa, ma dietro si sentono forte, i graffi
famelici della bestiaccia, che spinge e spinge, per entrare...
- Maledizione - penso - ho sempre odiato i gatti!