La prigione d'argento

Si svegliò.
Lentamente. Gli occhi ancora chiusi ed increspati gli dolevano leggermente, il sudore scendeva stanco sulla sua pelle. Inspirò e assaporò l’aria. Aveva un gusto amaro e un odore acre, pungente: sentiva che i suoi vestiti erano impregnati anch’essi dello stesso sapore. La superficie su cui si trovava
era dura e fredda, inorganica. La sua mente, confusa dal risveglio, ricostruiva e ordinava le idee sparpagliate. A piccoli passi i suoi sensi tornavano alla veglia.
Aprì gli occhi.
Percepiva figure confuse e sfocate, chiudeva e riapriva le palpebre.
Sospirò.
Confuso si mise a sedere, spingendosi sulle braccia. Il mondo intorno a lui girava vorticosamente. La lucidità tardava a venire e la vista non era ancora capace di lavorare perfettamente, ma poteva scorgere oltre quel velo strane linee verticali. Ancora non era capace di concretizzare le percezioni.
Il silenzio correva lì intorno, aggrappandosi al corpo dell’uomo, e come un chiodo invisibile gli penetrava le orecchie e il cervello.
Adesso soffriva.
Una strana e vigorosa luce, priva di sorgente, colpiva il suo volto stanco, e le pupille larghe faticavano a stringersi, quasi incitassero un nuovo sonno, e avessero paura del vuoto che le circondava.
Ma presto, anche la vista tornò. L’uomo si guardò intorno, e non capì. Era circondato da sbarre, sedeva su un pavimento di metallo; era infuocato da luce senz’ombra e oltre la gabbia regnava l’oscuro. Non poteva comprenderlo, ma era rinchiuso in una prigione d’argento.
Pensò di dormire, per spezzare quell’incubo: tentò e ritentò, ma fu inutile. La sua mente razionale cercava di sbrogliare l’intreccio di quel luogo, il perché egli ci fosse finito, come avrebbe potuto uscirne. Centinaia di domande e di dubbi si accalcavano, si scontravano tra loro, e roteavano insieme alla gabbia. L’uomo guardò le sbarre: non presentavano alcuna apertura. Si chinò, per osservare il punto in cui esse si attaccavano alla piattaforma, ma non trovò alcun segno di saldatura. Erano distanti circa 10-15 centimetri l’una dall’altra; tentò di spostarle, di creare un varco, ma con la sua forza non fu capace nemmeno di farle vibrare. “E’ come” pensava “se la gabbia fosse stata scolpita ed estratta da un enorme blocco di argento”. Era rinchiuso in una trappola senza entrata né uscita, senza nessun elemento di razionalità che potesse ricondurlo al suo mondo.
Cadde a sedere.

Non aveva niente con sé. Era vestito con un semplice pigiama, non aveva denaro, preziosi o gioielli, tranne che un piccolo ciondolo d’oro di famiglia.
Non capiva come poteva trovarsi lì. Era un uomo qualsiasi, semplice, lavorava onestamente, aveva una famiglia. Ogni tanto aveva commesso dei piccoli peccati sì, ma come tutti, sempre nella normalità. Non era speciale...
Eppure, prima non era nessuno, ed ora era l’unico.
Il solo carcerato della prigione d’argento.
Aveva cominciato a piangere.
Le sbarre si ricongiungevano a circa quattro metri sopra la sua testa, e oltre queste, non vi era niente che sostenesse la struttura. Fluttuava nella pece dell’oscurità, roteava costante, libera, sola, immersa in quell’incubo.
Non poggiava, inoltre, su nessun piano. Non vi era spiegazione logica, o perlomeno in parte esplicativa, per quel fenomeno innaturale. Niente di visibile sosteneva la gabbia, ed egli fu costretto a pensare che vi fosse una maledetta forza nascosta, o comunque non percepibile ad occhio nudo. Un’agonia spaventosa era esplosa nel corpo del poveraccio, che singhiozzava sommessamente e bestemmiava Dio per la pena ricevuta. Poco dopo, smarrito e stanco, svenne.

 

...

 

Quando si riprese fece attenzione a non aprire gli occhi. Il terrore cresceva, e da ogni estremo, da ogni angolo, anche remoto, del suo corpo sortiva velocemente e correva lungo le vene, per raggiungere il cuore; quest’ultimo accelerava il suo lavoro secondo per secondo, e, come fosse anch’esso irrequieto per la paura, pompava potente e frenetico il sangue caldo. Il volto di lui divenne rossastro. Inspirò e aprì gli occhi...
Still cage. Nient’altro.
Urlò con tutta la forza che aveva in gola: un grido potente, infinito, disperato... e inutile.
Qual era il significato di quella segregazione? Quale il motivo? Il terrore, l’angoscia, l’agonia erano tutto (e soltanto) ciò che accompagnava il supplizio dell’uomo. La libertà era un sogno, ogni minuto trascorso un nuovo incubo. La sua mente era sveglia, eppure quella realtà non le apparteneva; era straniera in quel luogo; ospite dell’inferno.

 

“Con lieve e ineluttabile passo si avvicina, la mia mente, colma di false memorie e col capo chino, al lezzo patibolo, dove l’avido boia prende il destino e cede l’insania; nessun desiderio è degno di essere l’ultimo, nessuna dichiarazione può spiegare un dolore così atroce. Cala di netto la scure insanguinata; il metallo già purpureo penetra nel mio cervello; nessun fiato contorna l’esecuzione... La testa mozza, nel cesto di paglia, abbandona la vita crudele; solo agli occhi è consentito un ultimo, umano gesto: languide lacrime scivolano sul volto vellutato, e mischiandosi col sangue formano un esile ruscello rosato. Adesso, ogni mio ricordo è un nuovo taglio, una nuova pena. Stremata e sconfitta la mia mente sta crollando in ginocchio e posa le armi, mentre la follia saccheggia e incendia la terra conquistata.”

 

I pensieri dell’uomo non lo riportavano al mondo concreto, da cui provenivano. Non vi era più spazio fra loro per la famiglia, per i cari, per i compagni. L’egoismo aveva preso il sopravvento. Soffriva per il presente e per il futuro, scacciava i ricordi e accoglieva soltanto parole di rabbia e follia. Non provava tristezza o solitudine, che sono nobili sentimenti; il suo cuore era colmo di semplice paura, per quel luogo sconosciuto, per la morte, per la vita... Tutto ruotava attorno a lui, mentre il tempo impazziva. Il filo logico si era staccato, non vi era più utilità nel suo misero essere; non esistevano più il giorno e la notte, il caldo e il freddo, la fame, la sete, il sonno. Regnava l’innaturale, e i sentimenti divenivano ora sovrani.
A lungo stette fermo a pensare. Poi si alzò.
Si scagliò con tutta la forza che aveva contro le sbarre, che risuonarono con un tonfo sordo. Ma soltanto una leggera vibrazione accompagnò il rumore. Ritentò di nuovo, più volte, finché la spalla cominciò a sanguinargli; eppure non provava dolore; poteva ferirsi in qualsiasi modo e non avrebbe sofferto. Chissà se avrebbe potuto morire...
Passarono giorni, mesi, o forse solo secondi. L’assenza di concretezza del mondo attorno a lui aveva contribuito a spezzare la sua mente quasi del tutto.
Il docile corvo nero della Follia si era ora appollaiato sulla sua spalla e, con piccoli movimenti, colpiva col becco la testa che presto avrebbe occupato. Soltanto la Dama Nera tardava a venire.
Egli si stava ormai convincendo che nulla lo avrebbe salvato di là dentro, che non ne sarebbe mai uscito. Quel destino folle, irragionevole, illogico, diveniva la sua vita. Tutto il paesaggio, perlopiù tetro, si scioglieva e si amalgamava con l’argento, unica realtà nel sonno della ragione.
Vi era nella mente del carcerato una sorta di unione tra ingordigia, avidità ed egoismo: un miscuglio malato senza fonte, che occupava tutto il cervello e impediva ogni forma di concentrazione. I buoni sentimenti se ne erano andati, scomparsi nell’oscurità, ed egli, come un naufrago, era sperduto nel suo mare di delirio, ed incapace di trovare la strada del ritorno, si doleva e piangeva come un bambino. La sofferenza psicologica cui era sottoposto lo schiacciava terribilmente e solo per breve tempo riusciva a costruire pensieri più o meno corretti.
Aveva gli occhi arrossati e gonfi, la gola secca, le labbra screpolate, eppure non soffriva la sete. Non si chiedeva perché fosse capitato là dentro, ma solo perché fosse stato lui il predestinato, perché di fronte ad una scelta così ampia fosse stato lui il prescelto. Il tempo si muoveva a saltelli, come un bimbo durante il gioco: i minuti e i secondi correvano tutt’intorno e si scontravano tra loro, mentre le ore, vigili, osservavano i pargoli immersi nel divertimento e attendevano pazienti il loro turno...

 

“Soltanto nero e argento. Questo è ciò che sopravvive alla morte, se non è la morte stessa. Ma quale essere fu capace di punire in tal modo? Chi fu lo spregevole assassino sadico? La luce se ne va. L’unico desiderio ormai sono le esequie... sì sì! Tutto questo non esiste, o meglio, esiste per me e non per gli altri. Nessuno può vedermi... assassini. Mi osservano, dall’alto.
Vedo i volti, odo le voci. Aaaaaahhhhhh. Non può non esservi una spiegazione non completamente illogica... Ancora quel corvo nero. Lo vedo lo vedo! Sento il cuore strozzato. Vorrei poterlo strappare con le dita, e morderlo, ancora caldo. Vorrei poterlo dilaniare, per metter fine al dolore che lo tortura. Vorrei pagare il pegno al diavolo, e tornare a vivere. Vorrei la libertà. Voglio la vita...”

 

Aveva rinunciato alla logica, e si era ormai abbandonato esclusivamente al sentimento, alla fantasia, alla paura. Lentamente il suo cervello si staccava dal corpo, e vagava in solitudine. Poco era rimasto di lui. Il suo corpo articolava movimenti inconsulti, avventati, autonomi. Era ormai divenuto un essere privo di facoltà logiche e intellettive. Di tanto in tanto si alzava e si scagliava contro le sbarre; poi piangeva, urlava, si autolesionava, restava ore seduto ad ascoltare il silenzio. Era ormai diventato un maniaco instabile e cerebralmente menomato. Non era rimasto in lui un briciolo di umanità; nuotava del vuoto e nell’oscuro.
Quello era un luogo immaginario e onirico, irreale e fittizio. Era un luogo paranoico, crudele. Non vi era, intorno alla prigione, niente che potesse stimolare anche solo minimamente l’immaginazione dell’uomo: ogni angolo oltre le sbarre era nero come il petrolio. L’idea di gettare il ciondolo d’oro fuori dalla gabbia per costatare la profondità del precipizio non l’aveva neanche sfiorato. Non avrebbe mai abbandonato l’unico prezioso che gli era rimasto, l’unico oggetto che lì dentro, per lui, aveva ancora un valore.
La barba cresceva a ritmo decisamente rallentato e faceva intuire quale poteva essere l’effettivo tempo che egli era stato lì dentro, ma la sua mente, adesso, non voleva ragionare; non le interessava più la sopravvivenza, anzi, contro l’istinto naturale, avrebbe desiderato la morte, piuttosto che l’eterna segregazione. Ormai la vista, l’udito e gli altri sensi erano ingannati. A tratti soffriva le paure più assurde, a tratti, noncurante persino delle più spaventose fìere che gli apparivano, si ritirava seduto in un punto, dove poteva rimanere immobile per un tempo infinito...
E proprio adesso, soltanto adesso, cominciava a farsi strada in lui una spiegazione tanto insensata, forzata e pazzesca da risultare in quel contesto stupendamente logica e calzante.
Il corvo era rimasto appollaiato sulla spalla dell’uomo, entrambi immobili, lo sguardo perso nei sogni. Una follia profonda si era instillata in lui, si accresceva ogni minuto di più e divorava, costante, i suoi pensieri. La gabbia era un luogo insensato, incredibile, inimmaginabile, dove anche la minima razionalità veniva stravolta e calpestata; era tutto tranne che reale, era viva; aveva occhi, orecchie, ed una mente acuta e malvagia: la mente, ahimè, del suo stesso prigioniero.
Solo adesso l’uomo, grazie al suo intelletto stroncato, grazie alla sua perdita cerebrale, poteva comprendere l’insieme: era rinchiuso nella prigione della sua Ingordigia, della sua Avidità; era rinchiuso nel circolo della sua Presunzione, del suo Egoismo, della sua Superbia. Non vi era nessuno che lo tratteneva lì, nessuno che lì lo avesse posto. La sua mente, sola, si era segregata nell’argento. Argento. Ogni desiderio che abbiamo, anche il più futile, ci sembra cosa estremamente preziosa. Tutti gli obiettivi della nostra vita sembrano avere straordinario valore, ma noi non cerchiamo di raggiungerli con l’umiltà che dovremmo, noi li bramiamo e bramiamo e bramiamo, li vogliamo ad ogni costo, e questa assurda ingordigia, ci pone tutti in un carcere senza uscita, senza vita né morte, o ricchezza o povertà.
Così, ciò che egli aveva compreso da sano lo aveva illuminato nella pazzia. Si rese conto del suo peccato e, stremato, si distese.
Appoggiò la testa e chiuse gli occhi bagnati dalle lacrime.

Alessio Poggioni