Per Edo e Alan, loro sanno perché.
Per Fritz Leiber che non lo saprà mai.
“Dottore, ce l’ha qualcosa per gli incubi?”
Il dottor Edoardo Rosati sospirò. Da ormai una settimana gestiva un ambulatorio
da poco inaugurato nell’entroterra ligure e quella era la terza richiesta del
genere che sentiva pronunciare da una delle sue nuove assistite.
Edoardo ponderò la donna seduta al di là della scrivania. Niente di
straordinario. Un’ordinaria signora sui cinquant’anni che forse avrebbe esibito
un incarnato pallido se la sua pelle da montanara non fosse stata per lustri
addietro bruciata dal sole e riarsa dal vento. Occhi stanchi ma non rassegnati
che in quel momento stavano valutando lui, biondo medico trentenne alle prese
con le inevitabili esperienze del dopo laurea. Occhi guizzanti che facevano
capolino dalla visiera di un vecchio e lacero Borsalino in feltro di lapin
satinato. Ed era anche la terza donna che Edoardo vedeva in quello studio
agghindata con un cappello da uomo.
“Com’è che in questo paese fate tutte brutti sogni?”
Una battuta smozzicata e diluita in un sorriso. Neanche veritiera.
Tre casi analoghi non rappresentavano la totalità. Anzi, non significavano
proprio nulla. Il posto però emanava un’energia sinistra. Appariva oscuro e
minaccioso, con i suoi gatti inamovibili che miagolavano aggressivi nei carrugi,
le macchie di muffa soffiate sulle pareti di case antiche, le ombre notturne e
sibilanti che lo attraversavano di notte. E il silenzio: a parte il vecchio
albergo chiamato Colomba D’oro, da nessuna abitazione si levava quel brusio
della civiltà inscatolato e diffuso dalla televisione.
“Non lo so, dottore”, rispose la donna. “Però alle mie amiche ha dato quelle...
benzo-non-so-dirle...”
“Benzodiazepine.”
“Quella roba lì. E i brutti sogni non ci sono più, loro dicono.”
Bella notizia, anche se qualsiasi psicoterapeuta avrebbe avuto di che censurare.
Il Diapezam che Edoardo aveva prescritto alle prime due pazienti sopprimeva o
riduceva quelle fasi tipiche del sonno in cui si manifestano gli incubi, ma
negavano con un colpo di spugna la possibilità di comprendere le dinamiche
psichiche di chi ne soffriva. Dubbi deontologici da educanda, considerò Edoardo,
queste donne chiedono soltanto di dormire.
“Va bene, signora”, disse iniziando a scrivere sul ricettario. “Ma solo per un
breve periodo. Questi non sono problemi da psicofarmaco.”
“Stia tranquillo, dottore”, disse lei alzandosi di colpo quasi a esprimere il
sollievo di andarsene. “A nessuna donna di qui piacciono le medicine, però,
sa...”
Non terminò la frase. La signora, già con una mano allungata verso di lui per
prendersi la ricetta, si appoggiò con l’altra al tavolino dando l’impressione di
essere sul punto di cadere. Quindi sbatté le pupille in modo convulso. Edoardo
riconobbe al volo i sintomi di un prossimo, leggero mancamento. Si alzò di
scatto e affiancò la donna, prestandole il braccio.
“Venga, signora, si appoggi”, la rassicurò accompagnandola verso il lettino, “si
lasci pure andare, ci sono io a tenerla.”
L’ordinaria signora cinquantenne di cui Edoardo neppure conosceva il nome si
tolse il cappello, si sdraiò e quindi mormorò: “Dottore, mi scusi, sono proprio
una stupida”, mentre Edoardo le alzava le gambe, sbottonandole il colletto del
vestito. Un capo unico, completo e ampio da contadina, color marrone bruciato.
Vene in rilievo sulle caviglie con chiazze sclerodermiche.
“Non si preoccupi. Stia solo calma e serena. Così ne approfittiamo per una
piccola visita.”
“Ah, che figura meschina...”
Edoardo le misurò subito la pressione. I valori erano perfetti.
“Ce l’ho alta?”, chiese lei con le palpebre semichiuse.
“Nossignora, vorrei averla io una pressione come la sua. Adesso sentiamo il
cuore.”
Prese il fonendoscopio e passò all’auscultazione, poggiando la campana piatta
sul torace a sinistra per cogliere i toni cardiaci.
Non percepì proprio nulla e allora inforcò meglio le olive del fonendo.
Niente.
Ma che succede? Si è rotto il fonendo?
Pigiò la campana spostandola sui focolai. E l’imprecazione gli sfuggì di bocca
contro la sua volontà.
“Macchecazzo!”
La donna alzò la testa.
“Qualcosa non va, dottore?”
Edoardo rispose con un grugnito incomprensibile. Sentiva le guance avvampare,
come uno studentello colto in flagrante durante una performance di bassissimo
livello. Meno male, a suo giudizio, che la cultura generale della sua paziente
si fermava ai derivati dal latte di capra.
Dov’è finito?, pensò. Ma l’ipotesi suonava assurda: il battito del cuore
non finisce da qualche parte. Prese ad agitare lo strumento a casaccio, mentre
le fauci gli si seccavano per l’ansia e lo stupore.
Poi udì.
Un battito. Regolare, da sessanta contrazioni al minuto.
“Accidenti!”
Gli scappò pure questo, dimentico dell’inalienabile prassi che consigliava di
non allarmare inutilmente i pazienti.
“Dottore...”
“Signora, ma lei sta bene? Si è sempre sentita bene?”
“Io... io sì. Qualche influenza ogni tanto. E... vabbè, gli incubi da un po’ di
tempo.”
“Signora, lei ha la destrocardia. Ha gli organi interni invertiti come
posizione. Il cuore a destra e...”
Tastò in basso sul lato sinistro.
“... il lobo maggiore del fegato a sinistra. Si chiama situs viscerum inversus.
Se dovessi farle una radiografia, scopriremmo stomaco e pancreas a destra.”
“Perché? Dove stanno di solito?”
Edoardo sorrise. Sulla posizione del cuore tutti più o meno ne masticavano. Su
quella del pancreas la percentuale d’ignoranti si allargava di almeno un terzo.
Non le rispose e si preoccupò invece di rincuorarla.
“Stia tranquilla. Non se ne deve crucciare. L’importante è che la destrocardia
non sia associata ad altre malformazioni. Il che, se fosse, le avrebbe già
provocato più di un grave problema. Ha soltanto gli organi interni al contrario,
ma tutto funziona come deve funzionare. Come si sente?”
“Mi sta passando.”
“E’ sicura? Dovrebbe fare degli accertamenti. Accusa spesso questi sintomi?”
“No, dottore”, disse lei, sporgendo i piedi fuori dal lettino. “Forse mi sono
alzata dalle sedia troppo... troppo decisa. Sa, il sangue...”
“Già.”
La donna si mise in piedi e recuperò il cappello che si calcò con forza sul
cranio. Appariva in forza, normale, una robusta contadina di altura, forse
prematuramente invecchiata, colpa del lavoro e del clima impietoso. Edoardo
recuperò la ricetta.
“Ecco qua, signora... signora?”
“Mi sta chiedendo il nome, dottore?”
“Devo, signora. Lei è una mia paziente.”
“Mi chiamo Lucia. Lucia Morello.”
“Arrivederci, Lucia.”
Con passo sicuro la donna uscì dallo studio. Edoardo raggiunse la scrivania,
digitò sulla tastiera del computer e aprì il nuovo file su Lucia Morello,
inserendo il dato dell’anomalia congenita. Mentre salvava i dati, sillabò ad
alta voce “A-VAN-TI!” e l’uscio dello studio con lentezza esasperante si riaprì.
Un’altra donna. Molto più anziana. Un po’ ricurva, sorriso sdentato ma camminava
senz’ausilio di bastoni. Abito nero con piccoli pois bianchi, scialle e foulard
anch’essi neri. Oltre la settantina. Anzi, forse già a ridosso del decennio
successivo. E il Borsalino in feltro di lepre, non antico come quello della
Morello, sopra la conocchia di capelli.
Edoardo indugiava fra il sentirsi divertito o sconcertato.
“Prego, signora, si accomodi.”
Lei, scricchiolante, si sedette con dignitosa fatica, appoggiando le mani
adunche e violacee sulla base della scrivania. Nel suo caso Edoardo scelse di
conoscerne subito i dati anagrafici e le chiese sfoderando il suo miglior
sorriso da incantatore di serpenti:
“Come si chiama, dolce nonnina?”
“Amalia, bel dottorino biondo.”
Edoardo rise. Bell’inizio, rilassante. La vecchia irradiava simpatia.
“E di cognome?”
“Scarella.”
“Scarella”, digitò il cognome sulla tastiera. “Bene. Che problemi ci sono,
Amalia?”
La risposta gli bloccò il respiro.
“Tengo gli incubi, dottore.”
Vide una mano, una sua mano, tremare. Che stava succedendo? Avevano ordito una
congiura per spacciarsi a vicenda benzodiazepine?
Ma no, sono montanare. Che vuoi che ne sappiano...
Quel pensiero gli scomparve di colpo dalla mente. Un’altra intuizione ora
premeva alla porta della sua coscienza. Una verifica che doveva compiere.
Subito.
Si alzò in piedi. Con fare cordiale affiancò l’anziana sul lato destro e le
chiese di alzarsi, porgendole il braccio.
“Venga, signora Amalia, sul lettino”, le comunicò gigioneggiando.
“Voglio auscultarla.”
Amalia si levò in piedi con qualche difficoltà. Poi fu molto più dura stenderla
supina sul lettino. Ma non pesava molto, tutta nervi e ossa. Edoardo le tolse il
cappello con delicatezza e afferrò il fonendoscopio.
Devo essermi ammattito, considerò fra sé e sé, questo paese mi sta prendendo
male.
“Sentiamo il cuore, Amalia”, le disse con ilarità, “Alla sua età è quel che
serve per tagliare il traguardo dei cento.”
“Ah, il cuore... quello.”
Appoggiò lo strumento sul torace in alto a sinistra. Il battito di quello non lo
udì affatto. Fu pervaso in meno di una secondo da una sensazione più che
sgradevole, qualcosa che assomigliava a una nausea acida. Déjà vu non
sembrava proprio il termine più congruo.
Non è possibile, è un sogno!
Non lo era. Spostò il fonendoscopio sulla destra con rassegnato fatalismo.
Eccolo, quello. Un buon battito data l’età, forse sotto i sessanta al minuto.
Ripose lo strumento e aiutò la vecchia a rialzarsi.
Lei si rimise il Borsalino in testa e chiese:
“Soltanto il cuore, dottore?”
Edoardo non si pose il problema di quanto poteva apparirle rabbuiato. Fece un
cenno affermativo con la testa, compilò la ricetta con il Diapezam, allungò il
foglio ad Amalia e poi l’accompagnò alla porta.
“Arrivederci, bel dottorino biondo”, lo salutò lei con tenerezza. “Non mi
verranno più i brutti sogni?”
Lui rispose di sì, ancora una volta con la testa, senza curarsi di apparire
altrove.
Poi, mentre Amalia guadagnava l’uscita con il suo passo a rilento, constatò che
non si vedevano pazienti.
Bene.
Lasciò l’uscio socchiuso. Andò a sedersi e compose al telefono il numero diretto
di Mastrovillari su a Milano. Guru delle malattie genetiche ormai alle soglie di
un’aurea pensione, suo mentore all’università e grande amico di famiglia. Il suo
parere su quella straordinaria coincidenza a questo punto era più che
necessario, soprattutto per capire quale via d’indagine poteva imboccarsi.
Fu fortunato. Mastrovillari, lui in persona, gli rispose al quarto squillo.
Edoardo gli raccontò l’ultima mezz’ora vissuta.
“Due non fanno ancora testo, Edo”, argomentò Mastrovillari. “Certo che una
dietro l’altra nel giro di pochi minuti è una coincidenza pesante. Non so che
dirti. Se ne trovi ancora, quel paese potrebbe diventare un laboratorio. Non
conosco un luogo al mondo dove si riscontri la sindrome di Kartagener su vasta
scala.”
“Ma non mi pare Kartagener, Francesco. Nessuna donna, tra quelle che ho
visitato, soffre di riniti, otiti, bronchiti. Nessuna ha tosse. Queste sono
soltanto destrocardiche e per il resto sanissime... ma due di seguito?”
“Se la prossima che ti chiede una visita avesse il cuore dalla parte sbagliata,
allora forse sì che saremmo di fronte a un caso eccezionale. Unico al mondo.”
La porta in sala d’aspetto si era aperta. Chissà, magari era un uomo.
“Ho gente adesso, Francesco. Se scopro un altro situs inversus, ti chiamo
subito.”
“Ci conto. Ah, Edo... Non dimenticarti della domanda più importante che mi pare
tu non abbia ancora fatto.”
“Ovvero?”
“Fatti raccontare gli incubi. Se fossi uno psichiatra, andrei a nozze con
un’epidemia di sogni condivisi. Ciao.”
Edo abbassò la cornetta. Adesso si sentiva più inquieto di prima.
Gli incubi, come argomento scientifico, lo destabilizzavano. E quale relazione
poi potevano intrattenere con una malformazione congenita? Si sforzò di cacciare
l’inquietudine e grido A-VA-NTI! Con l’inconsapevole speranza di trovarsi di
fronte un arzillo pensionato o un contadino di mezz’età. Maschio.
Invece no.
Un’altra femmina.
Bella, affascinante. Giovane. Anche lei con un’abbronzatura tinta corteccia.
Capelli ricci e corvini, tailleur nero, tacchi alti. Tipa cittadina. Come minimo
lavorava in qualche boutique giù a Sanremo. E il Borsalino in feltro bianco
appoggiato di traverso le stava benissimo e ne accentuava il sex appeal.
Per quanto solido e controllato Edo avvertì l’aumentare delle pulsazioni.
Normale reazione mascolina, questione di feromoni.
Lei gli sorrise senza parlare e lui cambiò di nuovo approccio. In verità si
trattava di una paziente agli antipodi delle precedenti, almeno per quel che si
vedeva. E quel che si vedeva era eccitante, non ci pioveva.
“Buongiorno, non mi dica che pure lei soffre di incubi la notte.”
Quel sorriso, così bello da starci male, si spense. Una ruga di preoccupazione
s’insinuò nella fronte liscia della ragazza.
“Ma, dottore... Come fa a saperlo?”
Le pulsazioni aumentarono ancora. C’entrava ancora l’erotismo, ma qualcos’altro
tentava di far capolino.
“Non lo sapevo. Ma questo sogno... Riesce a ricordarsi qualche immagine?”
Lei sospirò.
“Poco o niente”, rispose sedendosi di fronte a lui. “Ma è ricorrente, sempre lo
stesso tutte le notti. Non sono sola, ci sono delle altre accanto a me. Siamo in
cerchio attorno a un buco scavato per terra dentro il quale qualcuno sta
urlando. E sta per accadere qualcosa di orribile. E mi sveglio urlando anch’io.
Con una paura folle.”
“Massì, non è niente”, tentò di rassicurarla Edo, “un po’ di stress. Da quanto
tempo le capita?”
“Una settimana, dottore. Ma lo stress, dice? E tutte le notti alla stessa ora?”
“Quale ora?”
“Le tre. Le tre in punto. Ho la sveglia sul comodino...”
(Le tre, l’ora del lupo. Ma che mi viene in...)
“... che suona tutte le mattine alle 6,30, ma se mi sveglio alle tre, non mi
riaddormento più. Non potrebbe prescrivermi il Diapezam, dottore?”
Edo agguantò il ricettario. Quasi gli scappava da ridere.
“Accidenti, girano le voci.”
Anche lei sorrise. Bocca deliziosa e denti bianchissimi da cui farsi mangiare.
“Sa, funziona.”
“E lei che ne sa?”
“Le altre lo dicono. Ma sono un po’ anch’io del settore. Giù ad Arma faccio la
segretaria in un un centro medico polivalente.”
“Ah, quasi collega. Come si chiama? Sa, per la ricetta.”
“Cimiano. Eleonora Cimiano.”
“Età?”
“Ventiquattro.”
“È di sana costituzione fisica? Non tutti possono permettersi le benzodiapezine.”
“Io mi sento più che bene. Sono portatrice di una malformazione congenita, ma
non mi reca alcun disturbo.”
Edo alzò la testa sulla bella ragazzona che gli stava sorridendo con un velo di
malizia. E si chiese se lei si stesse accorgendo di quelle gocce di sudore
perlaceo di cui avvertiva la presenza sulla fronte: “Che malformazione?”
“Ho una trasposizione completa dei visceri toracici e addominali. All’esame
radiografico si vede l’immagine speculare della posizione normale. Lo chiamano
situs inversus totalis, ma giù al centro non più tardi di una settimana fa mi
hanno garantito che si vive in assoluta normalità. “
“Già. Proprio così”, assentì lui con i brividi che gli serpeggiavano per tutto
il corpo.
Poi non parlò più. Ultimò la ricetta, la porse alla ricciolona con cappello che
si allontanò sculettando dopo avergli rivolto un sorriso ammiccante, toccando
ironicamente la visiera del Borsalino.
Lui accennò un saluto solo con le dita, a costo di apparire all’improvviso
scorbutico e scostante senza motivo.
Si alzò. Si tolse il camice e lo appese a un infisso. In sala d’aspetto non si
vedeva nessuno e lui era ben deciso ad approfittarne. Aveva bisogno d’aria. Più
tardi avrebbe telefonato a Francesco Mastrovillari.
Uscì dallo studio e si ritrovò nel vicolo, uno dei tanti, troppi, di quel paese
arroccato davanti al monte Saccarello. Vicoli che salivano e che scendevano di
colpo, quasi per tradire il passo novizio del forestiero. Prese in direzione
della piazza del municipio, se non altro per uscire dal dedalo maleodorante di
muffa e di ardesia corrosa.
Rintoccavano le sei. Aveva chiuso le visite con mezz’ora di anticipo.
Pazienza, se qualcuno lo avesse redarguito, aveva già bell’e pronto un nutrito
repertorio di scuse più che plausibili: una chiamata improvvisa da Badalucco, un
paio di coliche o un avvelenamento da funghi giù a Molini. Chi mai poteva
prendersi la briga di controllare?
In piazza, sotto i portici, un crocchio di vecchi intenti a discutere e a
fumare. Berlusconi, i comunisti, i tedeschi che si stavano comprando mezzo
paese, l’altra metà che il comune aveva già svenduto ai milanesi. Da una
settimana Edo aveva già capito il tenore delle discussioni che si captavano in
pubblico. Se non altro, per fortuna, il calcio era stato bandito da ogni ordine
del giorno.
S’infilò nel baretto di fronte al municipio. Vecchio, polveroso, con sentore di
antico tabacco. Sugli scaffali aveva intravisto persino delle bottiglie da
collezione del Bianco Sarti o del Rabarbaro Zucca. Il barista esibiva una faccia
incarognita con stecchino penzolante tra i denti e una pancia che dava l’idea di
dover esplodere da un momento all’altro. Si fece allungare un Camparino e sfilò
dall’espositore un sacchetto di noccioline salate che probabilmente erano già
scadute all’epoca di Tangentopoli. Raggiunse un tavolo e si mise a leggere,
unico cliente del bar, la copia del giorno prima del “Secolo XIX”. Aveva un solo
scopo: sgombrare la mente dai troppi misteri accumulati in quel pomeriggio.
Durò poco. Una sedia stridette al suo tavolo e un’ombra gli si materializzò di
fianco. Edo alzò lo sguardo e incontrò quello, molto più che ironico, del
segretario comunale Gianni Oddo.
“Tutto bene, dottor Rosati?”
Oddo era quel tipo di uomo che fingeva sempre di sapere qualcosa in più
dell’interlocutore. Piccolo, grassoccio e con pochi capelli lisci. Guance rosee
da porcellino per scarsa pigmentazione. A lui il sole non faceva bene come alle
donne del paese.
“Certo.”
“Ha chiuso prima oggi. Poche visite?”
“Né poche né tante. Routine.”
Non sembrava proprio facile sganciarsene. Allora Edo decise d’attaccare:
“Piuttosto, dottor Oddo...”
“Sì?”
“Sto qui solo da una settimana e continuo a riscontrare degli strani dati
genetici che potrebbero far pensare a una sorta di malformazione collettiva.
Nulla di grave, sia chiaro, però...”
“Santo cielo, ma che sta dicendo?”
“Ehi, l’ho appena detto. Non c’è di che allarmarsi. E forse il problema riguarda
solo le donne.”
“Ah.”
“Oddo, come faccio per capire i gradi di parentela in questo paese senza dover
perdere ore al suo ufficio anagrafe dove non possedete neanche un computer?”
Il burocrate che giaceva dormiente nel corpo di Gianni Oddo parve svegliarsi
imbronciato.
“Cosa vorrebbe capire?”
“Cimiano, Morello, Scarella e tutti gli altri cognomi locali che ancora non
conosco. Se volessi sapere in fretta se e quando queste famiglie si sono
imparentate, se e quando i loro geni si sono incrociati, che dovrei fare, Oddo?”
“Semplice, dottore. Si fa un bel giro al cimitero. Lì trova tutte le risposte.
Lì è scritta la storia del paese.”
“Il cimitero?”
“In fondo al paese sulla strada che porta al ponte di Loreto. Non può sbagliare.
Anzi, il cimitero chiude alle sette. Può ancora godere di un’ora di ottima
luce.”
“Grazie, Oddo... Ancora una cosa.”
“Dica.”
“Come mai tutte le donne qui portano un cappello da uomo?”
“Lo sa come le chiamano sulle nostre montagne?”
“No. Come potrei saperlo?”
“Le Borsaline. La prima giunse dal basso Piemonte intorno al 1860. Da allora
stanno qui e si sono moltiplicate.”
“Ma non mi ha risposto...”
E non lo fece. Oddo si alzò di scatto. Salutò in maniera burocratica (‘ngiorno
dottor Rosati arrivederla a domani) e raggiunse l’uscita. Edo riassorbì in
trenta secondi lo sconcerto, pagò e uscì a sua volta.
Quando si ritrovò all’aperto, assodò che in piazza non si vedeva più nessuno. Un
vento freddo di tramontana stava spazzando cartacce e foglie secche. I vecchi
sotto i portici erano scomparsi. Oddo dissolto pure lui. In quel momento quello
pareva un paese fantasma, battuto dal vento delle streghe, insidioso e denso di
umidità d’altura.
Edo s’incamminò verso la strada statale della Valle Argentina.
Anche durante il cammino non incontrò nessuno. Quei due o tre negozi
d’alimentari che aprivano a discrezione di chi le gestiva si mostravano
sbarrati. Meno male che aveva un carattere gioviale e solare – si sorprese a
considerare – perché la minima tendenza alla depressione su quelle montagne
poteva risultare fatale.
In meno di otto minuti raggiunse il piccolo cimitero, oltrepassò il cancello
aperto e rimase colpito dalla cura, dalla pulizia e dalla quantità di fiori
coloratissimi che abbellivano ogni tomba. Notò anche che la gigantesca ombra del
Saccarello iniziava a lambire lo spiazzo occupato dalle lapidi.
Si guardò attorno: era solo e, ciononostante, si sentiva spiato.
Iniziò a camminare con lentezza fra le tombe: dopo una lunga lista di nomi e
cognomi che non gli dicevano nulla, inquadrò una tomba più antica e più rovinata
dalle altre, con una foto incorniciata al centro sbiadita e ingiallita.
AMALIA SCARELLA
DI ANNI 77
MADRE E NONNA ESEMPLARE
LE FIGLIE E I NIPOTI POSERO
TRIORA 1870-1947
Accidenti, pensò Edo, è identica alla mia paziente di oggi. Che è per
forza la figlia. Più che somigliante, direi.
Passò oltre. Francamente non riusciva a capire dai dati anagrafici
trascritti sulle lapidi quegli incroci parentali che, se confermati, sarebbero
stati quanto mai utili a Mastrovillari per tracciare una mappa geografica di una
malformazione genetica collettiva. Conosceva ancora troppo poco quel paese e la
sua gente.
E, mentre ci rimuginava, si bloccò con un piede alzato in un’assurda posizione
da fermo immagine televisivo con il cuore che voleva saltargli fuori dalla
bocca.
Cristo di un dio, che scherzo mi stanno tirando?
Lucia Morello lo stava guardando sorridente. Identica alla sua Lucia
Morello. Ma questa risultava morta sei anni prima.
LUCIA MORELLO
ANDAGNA 1950 – TRIORA 2000
UNA PRECE
Sì, bel pacco, Gianni Oddo del cazzo, ecco perché mi hai mandato qui. Ecco
perché al bar mi hai chiesto con strana insistenza delle visite di oggi. Signori
e signori, vi presento il gavettone per il nuovo medico di base! Ma vaffanc...
Stava imprecando ad alta voce e si fermò.
Tremante.
La lapide di Lucia Morello era crepata. Una bella fenditura larga quanto un dito
e così vecchia che un grosso ragnaccio ci aveva fatto casa.
Un pugno nello stomaco, anzi molto più sotto: santocielo, questa è proprio
una lapide di sei anni!
Raccomando a sé stesso di non essere così imbecille. E, mentre la sua parte
razionale e quella in ombra si andavano azzuffando, Edo intuì che doveva
concedersi la prova del nove. Ovvero, spostarsi sul fondo del cimitero, quello a
nord quasi a strapiombo sulla Valle Argentina, dove si trovavano le tombe più
recenti e cercarne - trovarne - una in particolare.
Si mise a ridere.
Una risata isterica.
Ma dai, quel pezzo di sventola che lo rizzerebbe a un morto. Scommetto che è
lei l’artefice di questo teatrino!
Arrivò nella zona. Le recentissime sepolture non mostravano neppure la
lapide, ma il provvisorio manifesto mortuario tenuto fisso da due stecche di
legno. Edo rimase colpito dal fatto che erano tutti giovani, morti improvvise,
incidenti stradali. Soltanto quelli per le strade pericolosissime dell’Appenino
Ligure.
E la vide.
Eleonora Cimiano.
La lapide più recente. Appena forgiata, nuova di pacca, perché poi iniziavano,
alla sua sinistra, i tumuli provvisori con manifesto.
ELEONORA CIMIANO
25 MAGGIO 1982
13 GIUGN0 2006
UN FIORE CHE DIO HA VOLUTO
RECIDERE ANCORA IN BOCCIOLO
PER NON VEDERE APPASSIRE
Lei. Ripresa di mezzo busto, bella e procace, con lo stesso vestito con cui si
era presentata un’ora prima allo studio.
Il vento vorticò attorno a lui e muggì di rabbia. Un altro frammento di sole
scomparve oltre il Saccarello. L’ombra di una notte prematura oscurò il minuto e
grazioso cimitero di Triora. Edo, scomposto e in preda al panico, indietreggiò,
senza che la prudenza lo assistesse e lo rendesse vigile della presenza di un
qualsivoglia ostacolo alle sue spalle.
Così la sua mano sinistra, ondeggiante all’indietro, sfiorò qualcosa
d’imprevisto – al tatto pareva nylon, tessuto sintetico all’altezza del suo
bacino – e lui si agghiacciò.
Prese a tremare come come un bambino di fronte all’antro dell’Orco che si
richiude per sempre, ma trovò chissà come e dove il coraggio di voltarsi.
Fibra sintetica. Autoreggenti velate con bordo ricamato, minigonna nera.
Stangona sculettante con situs inversus totalis. Morta.
E cappello Borsalino dall’intramontabile color bianco piazzato di traverso a
nascondere quasi del tutto gli occhi.
Eleonora.
Mortalmente sexy.
Eleonora e le altre.
Le Borsaline, ognuna con un modello diverso sulla testa.
Che stavano formando un cerchio attorno a lui.
Sbucate da una zona in ombra al riparo di lapidi secolari.
Che si avvicinavano con espressione neutra, bisbiglianti lingue antiche.
Eleonora che invece non bisbigliava e gli raccontava con voce carezzevole,
avvicinandosi sempre più:
“Bel dottorino biondo, ma perché hai voluto visitare due di noi? Perché sei
stato sciocco? Noi volevamo soltanto dormire senza incubi.”
Edoardo che barcollava all’indietro, adesso nella direzione opposta.
I sussurri che sembravano divorare la realtà circostante e aprire finestre
spaziotemporali su oscure verità immutabili.
... Terza Regola della Norma dettata da Lilith (l’Antico Terrore che è
dovunque): chi di Noi ritorna dalla Morte, camminerà sulla Terra con il cuore
dalla parte sbagliata...
Edoardo che incespicava mentre loro avanzavano chiudendo il Cerchio e le unghie
di Amalia, allungatesi di mezzo metro, gli laceravano la carotide. Una mano
adunca divenuta zampa che guizzava più veloce degli artigli di un felino.
... La Quarta Profezia di Lilith...
Edoardo che cadeva all’indietro dentro una fossa scavata di fresco
disegnando nell’aria una nuvola di sangue.
... Guardati da Colui che scoprirà la Terza Regola nel giorno di Iside...
Edoardo che si spezzava la spina dorsale nell’impatto con la cruda terra.
...altrimenti la Norma sarà infranta...
Edoardo che piangeva...
... giovane dottorino, tu eri l’incubo!
Bisbigli.
...e che moriva con la terra che pioveva dall’alto e che gli entrava nella
bocca.
Stregheria.
Fruscii, gorgoglii, la Lingua delle Bagiue.
La Terza Regola.
Tutto questo era già stato scritto. Dal tempo del Principio. Da Lilith. E
sottoscritto da Giuseppe Borsalino.
Triora, 3 settembre 2006, nel Giorno di Iside altrimenti chiamato Giorno dell’Allarme Universale.
Danilo Arona, classe 1950, giornalista, scrittore, musicista, ma anche ricercatore sul campo di "storie ai confini della realtà", critico cinematografico e letterario, instancabile "nomade" editoriale e forse qualcos'altro su cui si può tranquillamente sorvolare. Al suo attivo: un incalcolabile numero di articoli disseminati qua e là tra giornali locali e riviste varie; saggi sul cinema horror e fantastico e saggi sul Lato Oscuro della Realtà. Da anni si dedica stabilmente alla narrativa, elaborando un personale concetto di horror italiano, legato alle paure del territorio, forse in grado di dimostrare che la nostra solare penisola è uno dei più vasti contenitori mitologici del pianeta. Nel campo della narrativa breve, numerosissime sono le sue partecipazioni alle più prestigiose, e innovative, antologie degli ultimi anni.