Mangime.
Ecco ciò che vedevo mentre camminavo distrattamente. Piccoli, gialli, infiniti chicchi di
mais, sparsi in abbondanza lungo il malmesso marciapiede e sulla strada. Un camion che ne
trasportava grandi quantità deve aver fatto una brusca manovra, per doverne perdere così
tanti; magari gli è caduto fuori un sacco, o si è rotto, fu il primo sensato pensiero
che mi passò per la testa. E sfido chiunque a pensare diversamente, e anche solo a
provare a immaginare qual'era invece l'immonda e crudele realtà. Poi scorsi l'uomo,
davanti a me, che fino a prima non avevo notato. Portava un larghissimo cappello nero,
dalla punta pendente verso l'indietro, e con un nastro bluastro malamente legato attorno
ad essa. Da sotto il cappello spuntavano dei lunghi capelli, grigi come la nuvola più
scura, spettinati, crespi e scomposti. Un lungo quanto lacero mantello, anch'esso nero
come le tenebre,
lo copriva interamente. Con il magro e scheletrico braccio sinistro teneva ben ancorato al
fianco un cesto di vimini di ragguardevoli proporzioni, dal quale, con l'altra mano,
raccoglieva saltuariamente una manciata di chicchi di mais per lanciarli a terra, come se
stesse seminando sulla terra fresca. L'uomo, vistosamente gobbo e zoppo, aveva un andatura
goffa e lenta.
Niente camion, quindi. Nessun sacco perso né tantomeno rotto, ma solo un vecchio pazzo
che pensava di coltivare chissà quale terreno.
Provai ad attirare la sua attenzione e a chiamarlo, ma l'uomo non si girò. Mi dava
l'impressione che potesse sentire benissimo la mia voce, ma che non volesse affatto darmi
ascolto. Corsi quindi verso di lui ma, in maniera alquanto inspiegabile, la distanza tra
me ed il seminatore misterioso non diminuiva, ma anzi sembrava aumentare man mano che io
correvo più forte. Eppure, egli continuava a camminare lentamente, storpio e goffo.
Nella corsa vana ed inutile che, invece di farmi guadagnare terreno, mi allontanava sempre
di più dal vecchio incappucciato, inciampai malamente su di un tratto sconnesso del
marciapiede, e caddi rovinosamente a terra. Non fu tanto il dolore improvviso e lancinante
alla testa a farmi quasi perdere i sensi, ma bensì l'orrida ed incomprensibile visione di
ciò che mi stava seguendo.
Il gesto assurdo e senza senso del vecchio magro e senza nome che mi precedeva aveva
dunque una spiegazione, per quanto folle e priva di logica potesse essere. Con allucinante
terrore, fui costretto ad accettare ciò che vedevo. Una miriade di polli formava un muro
impenetrabile, il quale avanzava divorando tutto ciò che trovava sul terreno che
calpestava. Ciechi ed idioti, gli animali seguivano quella sorta di pifferaio magico,
beccando, con il loro becco assurdamente provvisto di centinaia di piccoli denti
appuntiti, ogni cosa che si parasse loro davanti. Il muro si avvicinava a me, lento ed
incomprensibile, mentre le bestie che lo componevano si calpestavano, si ferivano, si
mangiavano senza nessuna plausibile spiegazione.
Il rumore del loro bacchettio
sull'asfalto, e sulle loro stesse carcasse, del quale prima non mi ero nemmeno reso conto,
era diventato insopportabile, insostenibile, ed improvvisamente mi stava lacerando i
timpani. Prima di fuggire in preda al più nero terrore, vidi con assoluta e ferma
certezza che, dietro al muro delle bestie immonde, non c'era niente. Il bianco ed
insostenibile vuoto era l'unica traccia che i polli lasciavano dopo il loro passaggio.
Cercando di non guardarmi alle spalle, mi misi a correre, mentre
urlavo parole incomprensibili rivolte ai miei inseguitori. Ma il pensiero insopportabile
che i polli mi stessero seguendo non mi avrebbe mai più abbandonato. Lasciai la strada
principale e mi diressi sulla sinistra, per attraversare il ponte sopra il grande canale,
convinto che l'aberrante orrore in cui ero improvvisamente precipitato mi avrebbe prima o
poi lasciato perdere.
Cominciai così a percorrere l'orribile e tortuoso sentiero dell'Inferno stesso, nel quale
tutt'ora mi trovo, e di cui non vedo nè principio nè fine. Speravo di incontrare
qualcuno, anche il più infimo essere, per raccontargli ciò che mi sta succedendo, ma mi
rendo conto che oramai sono solo. Non ho incontrato un solo individuo da quando sto
scappando dall'innominabile minaccia.
Nessuno può più ingannarmi né tantomeno essermi d'aiuto.
I maligni polli mi seguono, ne sono sicuro, anche se non ho più il coraggio di voltarmi;
mi basta sentire il loro assordante bacchettio. Ed il seminatore mi precede, questo è
certo. Con la sua andatura goffa, zoppa, lenta, egli mi cammina davanti, seminando con
apparente noncuranza l'infernale mais. Non lo vedo, ringraziando Dio. Oh, se solo ne
potessi scorgere la nera figura credo che la pazzia si impossesserebbe definitivamente del
mio corpo e della mia mente. Però vedo i chicchi di mais, attorno a me, dappertutto.
Penso che non uscirò facilmente dal regno della follia, della malignità, dell'assurdo,
nel quale sono entrato.
E' dunque questo ciò che è scritto nel mio maledetto destino? L'eterno e dannato oblio?
E' la sublime e disturbante perdizione che mi attende?
Mangime. Ecco ciò che vedo.