Il samurai cattolico

Petali di pesco indugiano sul giardino dallo stagno ovale, affollato di pesci rossi e circondato di pietre rotonde. Un bastoncino votivo brucia in una scodella di riso, mentre il bonsai lascia ozioso cadere una foglia sul sinuoso vialino bagnato. Un corvo, passando, obliquo osserva un campanello ammiccare vivo alla brezza.
Il levigato specchio d’acqua. Lo sfrigolare dell’incenso che brucia. Il selciato odoroso di muschio vermiglio. Il lieve ondeggiare dell’ottone ossidato.
La pace è tornata e lontano il sole, ancora una volta, sorge di nuovo.
Tutto è obliquo, tutto il mondo è obliquo, e vivido, troppo vivido per una realtà cosi effimera.
La terra troppo vicina. Ne respiro l’umore. Il cielo troppo lontano. Infinito si allunga distante. Il mare nel mezzo. Sospeso galleggia leggero. La luce dovunque. Taglia di netto le cose.
Sono vivo? Ancora per poco.
Già il buio della memoria lascia il mio corpo, e la luce intorno svanisce, poco per volta, mostrandomi cosa è stato e cosa ho cercato di dimenticare. Un orrore immenso che in questi ultimi istanti di vita, questi primi istanti di morte si mostra infinito in tutta chiarezza.
Il lungo correre nella risaia. I samurai a cavallo. L’inciampare tra le piante basse e il rialzarmi concitato. Le urla di battaglia dovunque. La mia casa lontana davanti. Loro dietro vicini. Gli spruzzi di fango d’intorno. Le katane sguainate. Il galoppo dei cavalli nello stomaco. Le gambe stanche. Il fiato corto. Sono a casa. Il giardino. Mi volto sbilanciato, obliquo, e osservo.
Loro sono già qui. Silenziosi mi guardano intenti.
Sono morto? Dipende dal ricordo.
Ricordo quand’ero bambino giocare sulle erbose distese di un prato. Il monte Fuji lontano. Le sue nevi illuminare il cielo. La canna di bambù sferzare i teneri fiori di campo, mentre immaginavo ovunque i nemici. Già allora il Bushido era in me. Ricordo mia madre prendermi in braccio. Accarezzarmi i capelli sudati. Il suo sguardo tenero e dolce. Ricordo i suoi inni a Gesù Salvatore affinché mi mostrasse la via. La via che un giorno avrei preso. La via che porta alla vita, via dallo Zen e dalla via del Guerriero. Lontano diecimila anni, all’altro capo del mondo. Ricordo il prete e la processione e le candele e la via polverosa e il crocifisso che tenevo in alto, obliquo sotto il suo peso. Ricordo la conversione, la condanna dell’imperatore, l’espulsione dall’ordine, lo sterminio di chi amavo, la fuga, l’esilio.
Ma tutto questo è passato ormai. Svanito per sempre nel tempo.
Quello che resta è il movimento rituale, preciso, netto. Come un vento divino veloce si muove nell’aria vibrante mentre corro in giardino. Lo sento arrivare da dietro. Lo vedo arrivare su me. Sbilanciato e obliquo lo osservo ammirato.
Il taglio è preciso, esperto, sicuro sotto l’orecchio. Dove il cranio finisce c’è solo tenera carne.
La pelle si apre immediata, e sotto di essa lo strato di grasso non affatica l'incedere certo.
La lama inizia la corsa.
Uno per uno muscoli, fibre, vene si aprono netti. Come corde di un malinconico Shamisen riproducono suoni incerti che indugiano in me.

La carne si apre, e lo lascia passare. La carne lo accoglie, e veloce si chiude. La carne lo scalda, e veloce si scioglie, si mescola al sangue e sparisce.
L'acciaio e tutt'uno con me, adesso.
Lo sento scorrere in basso, sempre più in basso, profondo, sempre di più verso il centro della mia anima, verso il centro del mio io. Come un serpente nelle viscere della terra, si muove agile e svelto. Conosce sicuro la via ed esegue ciò che per anni gli è stato insegnato. Per questo è stato creato. Per questo attimo che dura una vita. Una vita, la mia, che in un istante si prende.
Un rumore assordante rompe i pensieri.
La lama ha raggiunto la toguè, la sacra spina, e fatica nel trovarsi la via.
Ascolto incerto uno stridere d'ossa. Sono teso. Soffro. Per pochi interminabili istanti un dolore indicibile scuote il mio corpo e la mente vacilla. Ma tutto passa, tutto scorre leggero e il viaggio continua.
Poi diventa veloce, sempre di più e ancora vene e fibre e muscoli si aprono certi. Lo strato di grasso pulisce la lama mentre la pelle la lucida infine.
L'acciaio è fuori di me, adesso.
Un sottile filo vermiglio circonda il mio collo. Il marchio è lasciato. Lo sento su me. Infame sigillo di una tragica fine e di un incerto inizio.
Sono vivo o morto? Ne l'uno ne l'altro.
Vedo la lama volare leggera davanti. Come un volo di rondine nel cielo si innalza. Una acrobazia, una giravolta, un luccichio e indietro ritorna. Si avvicina, mi sorvola e sparisce.
Un sibilo dietro. E' nel fodero, adesso.
E' finito. Il viaggio è finito.
Tutto inizia a muoversi obliquo, sempre più obliquo, distorto, sempre di più verso il centro del vuoto, verso il centro del nulla. La terra si muove vicina, il cielo si allunga lontano, il mare si sposta nel centro e la luce si staglia dovunque.
Tutto è obliquo, tutto il mondo è obliquo, e vivido, troppo vivido per una realtà cosi effimera.
D'improvviso mi stacco da terra. Come un volo di rondine nel cielo mi innalzo. Una acrobazia, una giravolta, un luccichio e indietro ritorno.
Io volo, la mia testa vola e dall'alto osservo il mio corpo. Una macchia rossa sul monco collo si spande. Io ruoto, la mia testa ruota e dietro vedo il guerriero riporre la spada. I suoi occhi fissi incrociano i miei. Vicino a lui, altri. Silenziosi mi guardano intenti. Io cado, la mia testa cade nello stesso istante in cui il corpo, involucro vuoto di un anima obliqua, si affloscia in ginocchio e cade in avanti.
L'impatto col suolo è violento. Mi rompo uno zigomo. Mi spezzo un dente. In giardino rotolo goffo, sgraziato. Obliquo mi muovo come una ruota d’un carro squassato. Sbilanciato e obliquo mi fermo, e osservo.
Tutto è obliquo, tutto il mondo è obliquo, e vivido, troppo vivido per una realtà cosi effimera.
Voglio dimenticare. Ho sognato. Nulla è accaduto. Tutto è passato. Sì, tutto è passato. Svanito per sempre nel tempo. Poi d'improvviso ricordo.
Sono morto. Sì, sono morto.
La luce d’intorno si spande e in un attimo tutto chiaro diventa.
La pace è tornata e lontano il sole, ancora una volta, sorge di nuovo.

 

...

 

Petali di pesco galleggiano sulla pozza di sangue ovale, piena di grumi rossi e circondata di gocce rotonde. Un bastoncino votivo, spento si trova su una scodella macchiata, mentre il bonsai operoso fa nascere un fiore, dritto davanti al vialino crepato. Un corvo, immobile, ritto, cava un occhio da un mozzo di testa sotto un campanello ormai morto all’immobile giorno.

 

Nota dell'autore
Il racconto si riferisce ad una storia realmente accaduta in Giappone intorno al 1637, quando migliaia di giapponesi e samurai convertitesi alla religione cattolica furono trucidati orribilemte. Uomini, donne, bambini e vecchi, nessuno sopravvisse al massacro e nessuno da allora è stato più ricordato.

Franco Nero