Ci sono cose in un cimitero di notte
Cose che non conoscerete mai,
Solo perché i morti non possono più parlare.
E se anche lo scopriste, non vorreste più più morire
Non per paura della morte, ma per paura dei vivi.
Lupus in Fabula
Un'ombra
alzò le braccia, due rami d'inverno: - Assaporate fratelli e sorelle - recitò con voce
solenne - il rancido profumo della decomposizione corporale; ma la morte è vanitosa,
cerca di confondere il suo tanfo con il dolciastro fraseggio dei crisantemi, delle
orchidee e delle rose dai petali consumati dal tocco del tempo, macerati nelle lacrime
inconsolabili che sgorgano dall'amore amputato da un tragico destino. Centellinate come
sommeliers macabri il vischioso vino del lutto, con i suoi grumi rotola tra le papille
gustative delle vostre libidini: questa aria di opprimente tristezza mi fa venire il cazzo
duro.
Aveva parlato Lubec. Junkie, Marzia e Spanska formavano un cerchio insieme a lui.
Lubec continuò dopo un lungo e profondo respiro di gola: - Nutritevi con queste
allucinazioni postume.
Gli altri tre gli si inginocchiarono come per prendere la santa comunione. - Questo fungo,
- disse imboccandoli uno ad uno - era usato dai sacerdoti del tempio di
Tlahuizcalpautecuthli per parlare con i figli delle ombre.
Le loro menti allora corsero claudicanti verso un buio precipizio di fantasie d'ambra; il
salto dalla realtà alle paludi del subconscio fu impercettibile, soffice e silenzioso,
come chi muore in un sonno infestato da sogni deliziosi, stordito dal sordo spremere del
tempo di un carillon fatto con ingranaggi di tendini e di ossa, un decrepito cigolare di
un valzer in tre tempi che frizza nel cervello.
La realtà sembrava immutata solo perché la loro realtà era mutata. I grilli cantavano
atoni, la terra aveva invertito il suo scivolare nel cosmo, la vita era come un film con i
colori scissi da un prisma.
Era fine settembre, l'aria calda e gonfia di elettricità, il cielo era livido con enormi
emorragie di nubi scure e sembrava il ventre squartato di una donna che ha partorito un
incubo atroce.
Marzia si allontanò con Junkie. Quella cagna si fece trovare
appecorinata su una tomba; randagia rosicchiava il suo osso, ma non lo ciucciava con la
bocca.
- Spero che quando sarò morto faranno di me un uso altrettanto utile - disse Junkie
avvicinandosi alla ragazza.
- Dove hai preso quella tibia?
- Dall'ossario qui accanto, - rispose Marzia - l'ho devastato.
Le sue chiappe pallide erano mistiche come la luna che le baciava; la passera fremente si
era bagnata di vaporose lacrime, non per il lutto. Anzi sì, per il lutto.
- Vieni qui Junkie, c'è un buco ancora libero per te. Seppellisci il tuo cazzo qui nel
mio loCulo.
- Tesoro, sei la tombarola più lurida con cui il mio cazzo ha avuto il piacere di
celebrare un funerale - disse Junkie.
- Avere un morto sepolto sotto di me mentre da dietro mi dai l'estrema unzione mi fa
sbrodolare - replicò Marzia guardando Junkie da sopra la spalla.
Junkie non se la scopò. Junkie amava ritardare il piacere: era un tantrico; le diede un
bel calcione in culo, le fece sbattere il bel faccino sulla foto ingiallita del defunto
che sorrideva inconsapevole di finire in quel modo.
Saltò sul marmo della tomba. - Sììì. Eddaaaiii!!!
Marzia sanguinava dalla faccia; Junkie la rivoltò e leccò il sangue che le rigava il
viso e le scendeva scuro sul collo bianchissimo; le leccò le narici sanguinose, le
palpebre gonfie. Marzia si allargò con le mani le cosciotte suine. Aveva le unghie
smaltate di lacca nera, era incendiata da quella violenza immotivata, da quell'oltraggio
che le irritava il clitoride. Junkie la sovrastava ma aveva il pensiero smarrito sul nome
di chi era sepolto sotto quella lastra di marmo. Lo si poteva leggere tra le cosce di
Marzia; una croce scavata nella pietra le finiva perpendicolarmente all'altezza della sua
fica: sembrava uscirle da lì.
- Ho trovato il Cristo, Marzia, ho finalmente scoperto dove si nascondeva - le disse
Junkie.
- Cosa?
- Guarda, ti sta uscendo dalla sgnacchera.
Marzia abbassò lo sguardo, "ahahah", rideva con un singhiozzo idiota. Un rivolo
veloce come un ruscello alpestre cominciò a percorrere la scanalatura della croce incisa
nella pietra, e ricoprì tutta la tomba di piscio brillante alla luce della luna.
- Sei una porcellona - le disse Junkie, annaffiandola a sua volta con un getto prepotente
sulla faccia. Poi la afferrò da sotto, per le gambe, infilandole le unghie nella carne
grassottella, e la trascinò sul bordo della tomba, trafiggendola con un colpo ben
assestato nella ferita della passera. Le caviglie di lei annodate dietro la schiena.
- Il tuo pisello c'ha il rigor mortis, Junkie? È durissimo! - esclamò Marzia. I due
scopavano con furia e bestemmiavano tutte le divinità monoteistiche.
Tum Tum Tum, echeggiava cupo nel silenzio.
- Facciamo troppo casino, Junkie, piano.
Si interruppero, rimasero immobili, avvinghiati, ascoltando i secondi scanditi dai loro
cuori pulsanti. Tum Tum Tum.
Ma il battere continuava ritmico e meccanico, proveniva dall'interno della tomba. Si
rizzarono di scatto impallidendo e guardando terrorizzati la lapide: Tum, Tum, Tum.
- Apriamo questa cazzo di tomba, dentro c'è qualcuno vivo, lo prendiamo e lo ammazziamo -
gridò Junkie.
- Scappiamo, dai scappiamo - rispose la ragazza isterica. E volse lo sguardo intorno a sé
per cercare gli altri due amici, ma non vide altro che fitto buio, incastonato da tristi
lumicini eclissati da ombre veloci nelle tenebre.
Junkie diede un calcio alla lapide facendole saltare i sigilli, la spinse con fatica, e il
coperchio si rovesciò. L'essenza sepolcrale li investì, come se avessero aperto una
finestra sulla primavera infernale di un paesaggio di fiori di carne putrefatta. Al posto
delle api laboriose il brulicare dei vermi famelici. Si presero per mano avvicinandosi
all'orlo della fossa, sembrava una pozzanghera nera.
Tum Tum Tum. All'interno, nella bara dal coperchio fracassato, una carcassa orribile si
masturbava con monotona intensità, fissando oltre il niente delle sue orbite svuotate,
oltre il niente dei due volti che lo guardavano.
Lubec e Spanska girovagavano tra le tombe e le piccole case dei morti,
due fidanzatini a passeggio in un villaggio silenzioso. In mezzo a due cipressi che si
slanciavano come colonne che reggono un soffitto di tenebre, c'èra una cappella
signorile.
- Requiem æternam dona eis domine - lesse ad alta voce Lubec sul frontone corinzio con
l'alfa e l'omega dipinti di rosso. Sotto, una possente e malridotta porta di legno tarlato
era semichiusa; dentro, il buio era spesso e morboso. La luna era sfuggita a una nuvola e
illuminava, come tagliando il buio a metà, l'interno della cappella. Lubec e Spanska
furono attirati dai paramenti funebri di un piccolo altare: candelabri che avevano
lacrimato anni ed anni fa, una croce, un leggio con un finto libro aperto sul (20,12)
dell'Apocalisse di Giovanni. In mezzo al tutto una piccola foto ingiallita. Tutto era
rugginoso, la polvere depositata dal tempo aveva ricoperto ogni cosa, come se la decadenza
della carne avesse infettato anche gli oggetti inanimati. Spanska prese tra le mani
quell'immagine incorniciata, la fissò inclinandola verso la luce se la strusciò tra il
folto pelame della fica, tre, quattro, cinque, dieci volte, fino a che il volto sbiadito
non fu ricoperto da un patina perlacea, appiccicosa come la scia umida di una lumaca.
Lubec le si avvicinò da dietro e le strappò dalle mani quella foto, la pulì con la
lingua.
Si intravidero dei contorni dal nero fitto, un'ombra livida, un volto dal lucore
spettrale, poi un corpo di orribile bellezza. La figura si avvicinò a Lubec, si piegò di
fronte a lui, gli prese il cazzo con le mani scarnificate, la testa pompava. Lubec,
eccitato dal terrore, passò una mano tra i lunghi capelli di quella figura inginocchiata
a recitare preghiere sul suo cazzo, ma una ciocca stopposa gli rimase attaccata alla mano
insieme allo scalpo disgustoso. La donna si sollevò, parte del cranio era scoperta e
bianca; guardò Lubec con l'unico occhio color fango, l'altro grondava cremoso sperma che
si allungava in filamenti che cadevano sul vestito ammuffito e lacero.
- Quanti anni avrà avuto questa qui? - chiese a Spanska, sbigottita e che fissava la
morta, - Somiglia a quella della foto ti sembra? - Spanska non rispose.
- Credo sia morta verso i trentacinque-quarant'anni - disse Lubec girando lentamente lo
sguardo verso la carcassa in piedi di fronte a lui. - Guardale i denti, sono intatti.
La donna sorrideva con l'espressività di un manichino ammuffito.
- Doveva essere bellissima con quei lunghi capelli biondi - continuò Lubec nel suo
monologo.
- Peccato tesoro che gliene hai staccati una metà - osservò Spanska, scossa dalla
gelosia indicando il ciuffo color grano che era rimasto in mano a Lubec. - È brutta da
morta ed era brutta da viva, sicuro, continuò.
- È più bella di te, anche da morta, invece - disse Lubec ritornando all'assalto di
quella mummia. - Vieni qui tesoro, non la ascoltare quella puttana. Ti ha mai detto
nessuno che hai delle splendide clavicole?
La donna accennò un ripugnante sorriso chiudendo l'unico occhio corroso dalla putredine.
Lubec eccitato le diede un bacio sulla bocca sentendo, al posto di labbra carnose e calde,
le labbra dilatate del cavallo che lascia scoperti i denti freddi, rigidi, orribili. Preso
dalla passione la trascinò in un casqué troppo brusco per quelle ossa derelitte. La
testa le si inclinò troppo all'indietro, staccandosi dal corpo e andando a rotolare
rumorosamente ai piedi di Spanska che rideva come una folle.
- Peccato, perché avevo intenzione di fare un bel triangolo con te,
ora al massimo viene fuori un trapezio - disse Lubec.
Spanska guardò quella testa, non le faceva assolutamente pena, le assestò un calcio da
terzino, e la testa si disintegrò in una nuvola di ossa e polvere.
Stizzosa, poi, disse a Lubec: - Sei uno stronzo, ora vado con il primo cadavere che
incontro.
Si voltò uscendo dalla cappella, inoltrandosi tra la foresta di lapidi e croci. Lubec la
guardava rimpicciolirsi nell'ombra fino a che i contorni del suo bel culo sbiadirono; le
tenebre l'avvolsero e scomparve come una macchia bianca lavata via da un abito nero. Lubec
uscì dalla cappella, guardò nella direzione in cui aveva lasciato gli altri due amici.
Sotto la luce gialla di un lampione tormentato da zanzare e falene gli sembrò di vedere
tre figure unite in un disgustoso amplesso, un animale a tre teste divorato in parte dalla
cancrena. Tre volti si girarono verso di lui con un sorriso grottesco e inconsapevole. Dal
terreno si sollevò una nebbia fitta e indolente, il gelido il respiro dei morti che
appannava l'aria vetrosa della notte, coprendo con funebri sipari le croci, le lapidi, i
cipressi.