Trasloco

Aveva appena spento la luce. Ora la stanza era illuminata solo dalla luce tenue di un già pallido sole, i cui raggi filtravano dalle tapparelle semiabbassate.
Stava per chiudersi la porta alle spalle, per l'ultima volta.
Lì non sarebbe mai più tornato: tutte le stanze erano completamente vuote, i soffitti senza lampadari, le pareti disadorne; dei quadri e dei mobili, erano rimasti solo gli aloni sui muri, che il tempo aveva disegnato con puerile imperfezione.
E il vuoto gli provocò una sottile angoscia.
Tutto era ormai finito, chiuso, consegnato al tempo. Tutto era ormai solo ricordo, come gli anni passati in quell'appartamento ora spoglio.
Ricordava ancora quando lui e la donna che allora era sua moglie vi erano andati ad abitare. Fece un rapido conteggio degli anni trascorsi, poi scosse le spalle. "Troppi", pensò. "Troppi, e vissuti spesso superficialmente".

 

Una lacrima gli scese dagli occhi e cadde per terra, senza produrre rumore, senza enfasi, senza alcuna utilità. Cadde per terra e per terra si infranse, sparendo quasi subito, assorbita dal pavimento poroso. Una piccola debolezza di cui nessuno si sarebbe mai accorto, della quale nessuno avrebbe mai saputo nulla.

Guardando verso il punto in cui prima si trovava la cucina, ripensò a tutti gli anni passati lì dentro, a tutti i cibi cotti sui fornelli e ad ognuno di essi associò il proprio odore: ricordava perfettamente tutto: non era mai stato lucido come in quel momento.

 

Rivide i suoi figli correre felici per le stanze, seminando un sano disordine all'intorno; percepì sui muri, sotto vari strati di pittura murale, le impronte di piccole mani e disegni fatti col pastello di cera.
Gli parve di sentire l'eco delle loro grida infantili, un'eco amplificata a dismisura dalle parete spoglie.
E sì che se l'era cercata, o che, quantomeno, non aveva fatto niente, proprio niente per evitarlo.
Già, niente. E così, adesso, raccoglieva il frutto di tutti i discorsi non fatti, di tutte le parole non dette, di tutti i silenzi infranti solo dal tintinnio delle posate, mentre mangiavano. Due perfetti estranei, ecco che cos'erano diventati: due persone che in comune non avevano più niente, neanche la confidenza.
E l'insoddisfazione che aveva avvertito, come uomo, aveva poi trovato sfogo in un rapporto clandestino con un'altra donna. La storia era andata avanti finché sua moglie non l'aveva colto in flagrante, con le brache calate e con quel pendulo infilato in chi non avrebbe dovuto; a ciò era seguita una scenata con spettacolo di piatti volanti per tutto l'appartamento, con la fuga dell'amante e, dulcis in fundo, con la fine del loro matrimonio.
Scosse il capo: era ora di andare, di chiudere la porta per l'ultima volta e dimenticare. Sì, andare; ma dove? A cercare amici ai quali imbottire le orecchie coi suoi tormenti? In un bar a bere whisky fino a crollare? A cercare compagnia in mezzo alla folla, piena solo del proprio niente?
Altrimenti che fare? Forse un'altra soluzione c'era, un altro luogo ove traslocare, nel quale non servivano valigie né mobili. Diede un altro sguardo intorno. Poi si uccise.

Mario Ipocoana