Un mostro.
Era diventato un mostro. Un lurido, ripugnante, schifosissimo mostro.
Non ci poteva credere.
Non ci voleva credere.
Sollevò lentamente il viso e si guardò nuovamente attraverso lo specchio. Quella vista
gli ferì gli occhi. Il suo volto. I luminosi capelli castani che una volta lo
incorniciavano, i profondi occhi verdi che lo dominavano, la bocca così rossa e
proporzionata, le gote... così lisce.
Dei capelli restavano solo pochi ciuffi ingrigiti, gli occhi, la bocca, le guance, tutto
era gonfio, tumefatto, la pelle era quasi nera, con chiazze violacee a evidenziare la
deformità della sua faccia.
Del suo corpo.
Osservava le sue patetiche membra, sembravano quelle di un vecchio fragile e morente, non
del ragazzo che neanche un mese prima aveva potuto raccontare agli amici di essersi
portato a letto Celeste, la cameriera.
Ed ecco arrivare l'ennesima crisi. Prese a tremare violentemente, gemiti di sofferenza
sfuggivano alle mandibole disperatamente serrate, si aggrappò al bordo del catino per non
cadere, il dolore puro era disegnato sul suo viso. Lentamente il tremore scemò, fino ad
affievolirsi del tutto. Il suo corpo macilento era ancora abbarbicato addosso al bacile,
allorché si accorse della grottesca posizione che aveva assunto, lentamente si ritrasse,
ricurvo.
Voglio andare a letto, domani sarà tutto finito, mi sveglierò e sarà di nuovo tutto
come prima.
A stento riusciva a far seguire un passo ad un altro e faticava a mantenere l'equilibrio.
Dopo interminabili minuti, allungò dolorosamente quello che una volta era stato il suo
braccio per raggiungere finalmente l'asta del baldacchino. Dio, perché mi hai fatto
questo?
Per un momento lo sguardo indugiò sulla spada, appoggiata sul bordo del giaciglio.
L'esile lama foderata di pelle, l'elsa in ferro brunito e ageminato d'oro, l'impugnatura
rivestita di cordoncini dorati. Sarebbe bastato così poco per farla finita una volta per
tutte. Meditò seriamente di uccidersi.
" Oh... c-cielo... scusate! I-io non volevo... "
Rivolse i minuscoli occhi, quasi inesistenti incastrati com'erano nelle tumide orbite,
alla graziosa figura immobile sulla soglia.
Celeste, oh Celeste! Piccola, splendida, eterea, maledetta ficcanaso.
Parlò lentamente, biascicando le parole con sofferenza. E rabbia.
"Ti avevo ordinato di non entrare. Mai, per nessun motivo."
"È vero ma... lasciatemi spiegare... pensavo dormiste... avrei rassettato...
pulito..."
"Tu non dovevi vedere..." Ebbe un singulto "...questo."
Un filo di bava prese a pendere dalle sue labbra.
Celeste si avvicinò a grandi passi con un lembo del vestito in una mano, delicatamente
gli pulì la bocca come si fa con i neonati, lo fece con l'espressione di chi pulisce una
pozza di vomito per terra.
Lui le afferrò il braccio.
"Tu non avresti dovuto vedere."
La guardava dritto negli occhi, uno sguardo grave, ma rammaricato.
"No, non saresti dovuta entrare."
La lama penetrò tra lo stomaco e il cuore.
Un espressione di puro stupore era ora impresso nel volto della giovane.
Stupore e rimpianto.
Egli la abbracciò, e aspettò che le morisse nel petto.
Improvvisamente ne sentì il peso e cadde rovinosamente sul freddo pavimento di
mattonelle.
Un tremito lo scosse facendolo contorcere e piegare, si vomitò addosso.
Un'altra crisi stava arrivando, e sapeva anche che sarebbe stata l'ultima.
Strinse più forte il corpo di Celeste e chiuse gli occhi.
Una lacrima sgorgò, cadde nel vuoto, e morì.
Si era nell'estate del 1586, la peste aveva seminato morte, panico e
orrore in tutta l'Europa.
La Morte Nera provocava emorragie, brividi, nausea, vomito, febbre.
Nei casi più gravi la febbre alta suscitava deliri.
Talvolta il delirio diventava follia.