Se le cose
sono storte basta inclinare la testa per vederle dritte. Questa frase è la mia rotta.
Continua a portarmi di qua e di là. Alla deriva su una barca che sta colando a picco.
Continua a prendersi tutto lo spazio che vuole dentro quell'enorme castello vuoto che è
la mia mente.
Ecco: adesso, con la testa piegata così, anche le veneziane delle mie finestre sembrano
dritte. Ma la casa è storta. Cammino per le stanze seguendo queste linee sbilenche. E a
seconda degli oggetti che si parano davanti mi curvo. Ora storpio, ora gobbo, ora
claudicante: ogni oggetto mi vede a modo suo, come mi comanda.
Devo attraversare il corridoio. So che il quadro appeso in fondo pende da una parte. L'ho
misurato e controllato centinaia di volte, e ogni volta che lo raddrizzo, lo risposto di
nuovo... e mi curvo io.
Devo attraversare il corridoio.
Slitto con i piedi. E' difficile in questa posizione non slittare sopra gli escrementi che
sono cosparsi in giro. Devo attraversare il corridoio.
In bagno veritas. Tutte quelle piastrelle dritte, simmetriche. Quegli oggetti lisci e
bianchi, duri come sassi... quello è il paradiso; devo meritarmelo... non posso entrarci
così.
Ho imparato a riconoscere tutti i dislivelli a occhio nudo, anche i più impercettibili. E
sono diventato bravo... molto bravo. Anche a distanza di parecchi metri colgo il più
invisibile difetto. Anche quella porta che rimane chiusa... quella porta laggiù, da dove
qualcuno mi passa delle ciotole di cibo dal piccolo sportellino in basso: è storta. E'
storta, è storta... mi prendo la mia rivincita su quella maledetta porta che non si vuole
aprire... è storta, è storta!
Qualche tempo fa mi sono chiesto chi la tenesse chiusa. A chi appartenessero quei vocii
che sentivo. Adesso non mi interessa più. Quando mi fermo in mezzo alle stanze e faccio
finta di niente, fisso un punto nel vuoto e con la coda degli occhi spio tutti quegli
oggetti, tutte quelle cose che si spostano da sole. E giochiamo. Giochiamo... io indovino
di quanti centimetri si spostano. E storto, gobbo e claudicante, corro in quella direzione
e le smaschero... ma non le raddrizzo. Le lascio così: mi storto io.
Un rumoraccio di legno che si frantuma richiama la mia attenzione. Mi distolgo per un
attimo dai miei pensieri e guardo dietro di me: un uomo vestito di nero, con delle strisce
rosse ai lati dei pantaloni, ha divelto quella porta e mi guarda con due occhi allibiti,
mentre si porta una mano sopra la bocca e il naso.
''Maresciallo Carotenuto, correte!!"
L'altro uomo arriva di corsa tenendo il cappello in mano. Dietro di lui altri due uomini
in nero trattengono una figura femminile che nonostante l'avanzata età sembra piena di
energia.
Hanno le facce schifate.
E io riesco solo a mormorare qualche parola e a stortare la testa: ''Voi avete una gamba
più corta di un centimetro e mezzo... voi avete un'asola di mezzo centimetro più in su,
voi...''
Dal Corriere della Sera del giorno dopo, in un trafiletto soffocato da
una enorme pubblicità:
''... e dopo il crollo del ponte, dovuto a svarioni di progettazione, l'ingegner Riccardo
Terzo era scomparso dalla circolazione. La madre aveva fatto recapitare ai carabinieri una
lettera nella quale il figlio dichiarava di volersi suicidare, e così il caso fu
archiviato. Ma dopo trentasei anni, quando ormai tutto sembrava sotterrato insieme alle
260 vittime precipitate dal ponte, ecco che il figlio di una di esse, dopo sfortunate
indagini portate avanti senza nessun aiuto, è riuscito a rintracciare la vecchia madre
dell'ingegnere in uno sperduto paesino dell'Abruzzo. La donna, dopo che il figlio iniziò
a dare segni di squilibrio lo tenne segregato in una vecchia casa e...