"Io sono Marco Furetti. Non sono un medico, non ho mai conseguito una laurea e non mi sono mai specializzato in cardiologia. La mia vita intera è fondata sulla bugia, sulle stesse bugie che ho sempre raccontato ai miei genitori, a mia moglie, ai miei figli, ai miei amici... chiunque ascolti questa registrazione, sappia che mi dispiace, sappia che ho sempre voluto bene a tutti quanti, e che per questo farò quello che fra poco farò. Almeno questa, per l'unica volta nella mia vita, non è una bugia. Ho ingannato me stesso e tutti quanti per vent'anni, e tutto questo mi sta scivolando via, non riesco più a gestirlo. Sono un debole, e quando pensavo che vi fosse ancora rimedio a questo castello di bugie, mi accorgevo che oramai ne ero dentro, e non ne potevo più fuggire. Non sono mai esistito, tutta la mia vita è una menzogna. Perdonatemi."
Schiaccio il tastino eject. La videocassetta esce dal videoregistratore
che ho attrezzato per la mia registrazione. Ho il sangue gelato, ma una strana calma mi
pervade, rendendo morbidi e sicuri i movimenti. Mi aspettavo che le mani tremassero, e
invece niente, sono perfettamente padrone di me stesso.
Mi siedo sul divano, con la videocassetta in grembo e lo sguardo fisso sul monitor spento.
Mi allento la cravatta, nella speranza che il groppo che ho alla gola possa alleviarsi o,
magari, sparire. Respiro a fondo, e cerco di rimanere più calmo che posso. Mi passo una
mano sui capelli, e sento che sono bagnati di un freddo sudore. Vorrei piangere, ma non ci
riesco. Il massimo che riesco a fare è tirare su col naso. Penso che questo groppo che ho
alla gola sia talmente grosso che blocca qualunque altra funzione sentimentale. Ma
comunque sia, sono contento di non avere crisi isteriche o attacchi di pianto o svenimenti
o ancora cali della pressione. Mi sento a mio agio in questo torpore, e me ne lascerei
quasi cullare sino ad addormentarmi per poi svegliarmi il mattino dopo e pensare che sia
stato tutto un sogno o una crisi d'ansia passeggera. Ho sempre sognato il meglio per me e
per la gente a cui voglio bene. Ho sempre voluto che fossero fieri di me. Ora ne pago le
conseguenze.
"... sei così triste...nei tuoi occhi c'è tristezza e malinconia. Mi dispiace, dobbiamo smettere di vederci, non sono abbastanza forte per sopportare il peso di una così grande tristezza. Mi dispiace." In quel momento misi giù il mio bicchiere di Borgogna, e senza guardarla acconsentii con un cenno della testa. Il mare era una bellissima distesa azzurra.
Mi alzo e mi dirigo in cucina. Di sopra tutti dormono. Laura dorme nel
letto, semi ubriaca. Ha bevuto molto, perché era nervosa. Ha scoperto che il conto in
banca è in verde, e che non figuro sulla lista dei medici dell'ospedale. Ho cercato di
spiegarle qualcosa per calmarla, con voce bassa e rassicurante. Le ho detto che poteva
trattarsi di un errore, ma lei, mezza intontita, continuava ad asserire che mi avessero
licenziato. Non ho avuto il coraggio di dirle la verità. L'ho presa in braccio e l'ho
portata su in camera da letto. Poi le ho tolto i vestiti e l'ho messa sotto le coperte,
con dolcezza. Le ho detto che l'amo. Anche lei me lo ha detto, mormorando, e mi ha chiesto
cosa stesse succedendo, il perché la banca aveva chiamato e perché non le avessi
mai fatto vedere dove vado a lavorare. Ma farfugliava, e si è addormentata subito. Io
sono sceso di sotto, a pensare.
Mi verso un bicchiere di latte freddo e me lo bevo tutto d'un fiato. Il liquido mi scende
lungo la gola e quasi mi sembra di stare un poco meglio.
Mi passo di nuovo la mano sui capelli. Penso a Francesca, la donna che mi ha complicato
tutto. Simbolo della mia stupidità e egoismo. La mia mante. Forse sono stato con lei
nella speranza illusoria di scampare per un po' alla mia realtà. Non lo so. Mi disse che
sono triste. Se essere tristi vuol dire essere come sono io, allora ho avuto una vita di
sola tristezza.
"Perdonami... perdonami..." dico quasi singhiozzando, e poi lo faccio. Corro a
tutta velocità in salotto, con la cravatta che mi svolazza dietro alla nuca, prendo la
mazza da baseball che ho nascosto dentro alla credenza, e salgo di sopra. Entro in camera
da letto e comincio a dare mazzate al punto dove ci dovrebbe essere la testa di Laura. Lei
sembra svegliarsi all'improvviso, le braccia si piegano sopra la testa in un estremo
tentativo di proteggersi. Gli ho dato almeno cinque colpi quando mi fermo. Butto la mazza
a terra e rimango inginocchiato sul letto, ansimando. Laura non ha emesso un solo rumore.
Ora il suo corpo è immobile davanti a me. Sento il sangue vischioso sulle mani e sulla
faccia. Respiro a fondo. L'ho uccisa...
Scendo dal letto, lentamente. Ormai non posso tornare indietro. Respiro di nuovo a fondo.
Torno di sotto in salotto.
Mi siedo sul divano e butto indietro la testa. Non piango, non ricordo più come si
faccia. Ho una morsa che mi attanaglia le viscere, mi sento malissimo, quasi mi viene da
vomitare. Non ho pensato ad ucciderla, è successo e basta. Muovo le labbra cercando di
dire qualcosa, ma non riesco a dire una sola parola. Non saprei nemmeno che dire.
Non posso sopportare che i miei cari mi guardino in faccia dopo tutto quello che ho fatto.
Non riuscirei mai più a reggere il loro sguardo. Non voglio che i bambini crescano
sapendo che il loro padre ha ucciso la madre e che ha fondato la propria vita sulla
menzogna, facendo credere a tutti che io avessi un bel lavoro e tanti soldi. Non voglio
che sappiano che mentre io avrei dovuto essere al lavoro, giravo in auto per le autostrade
oppure che dormivo dove capitava. Non voglio che sappiano che i soldi li ho rubati da
tutti quelli che me li affidavano per investirli. Non voglio che sappiano tutto questo.
Non voglio...
Mi sveglio di soprassalto. Fuori cominciano a spuntare le prime luci
dell'alba. Controllo velocemente l'ora. Sono da poco passate le sei del mattino. I bambini
si devono svegliare tra poco per andare a scuola.
Mi alzo di scatto e salgo di sopra, in camera. L'odore è fortissimo, impregna l'aria, e
sento una mosca che gira per la stanza. Cerco di non voltare la testa verso il corpo di
Laura e vado a prendermi dei vestiti di ricambio. Poi vado in doccia.
Mi guardo allo specchio, e fatico a riconoscermi. I capelli sono fradici di sudore, ho le
occhiaie e gli occhi sono rossi e lucidi. La camicia azzurra a righe che usavo per
"lavorare" è chiazzata di sangue, come anche la faccia. Le mani sono sporche di
sangue, e i pantaloni sono imbrattati. Distolgo lo sguardo dallo specchio, e mi tolgo i
vestiti. Li lascio lì, in mezzo al bagno. Laura si è sempre arrabbiata quando non
mettevo i vestiti sporchi direttamente a lavare.
L'acqua che scroscia lungo il mio corpo è rossa, come la pozza che forma ai miei piedi.
Quando ho finito mi metto i vestiti nuovi e vado a svegliare i bambini. Entro nella loro
stanza, che odora di chiuso, e allora apro le tende. La luce entra, disturbando i bambini.
Sveglio prima Lorenzo. Mormora qualcosa di incomprensibile, poi si alza.
"Dai, svegliati Camilla, che devi andare all'asilo," le dico accarezzandole la
testa.
"Mmmhhh... papà, non sto tanto bene..." mi dice. Allora la lascio riposare
ancora un poco.
"Dormi, torno dopo e vediamo se stai ancora male."
Lorenzo è già andato giù di sotto, in salotto. Lo seguo. Lo trovo che si è acceso la
televisione e sta guardando i cartoni animati.
"Tra poco ti preparo la colazione," gli dico mentre vado nello studio. Sento un
"sì".
Rimango qualche minuto seduto davanti alla scrivania, come se fossi in trance. Mi sento la
testa svuotata, ma qualcosa mi ordina comunque di prendere in mano la pistola automatica
che tengo nel cassetto. La comprai per autodifesa, in caso ci fossero stati i ladri. Come
ogni buon padre di famiglia ho sempre voluto essere previdente e potermi difendere.
Impugno l'arma e controllo che ci siano tutti i colpi nel caricatore. Poi vado in salotto,
tenendo l'arma dietro alla testa. Lorenzo sta ancora guardando i cartoni. Gli sono sempre
piaciuti. Mi posiziono dietro di lui e gli punto la canna della pistola alla nuca. Ho un
attimo di ripensamento, ma mi accorgo subito che non posso più tornare indietro.
Lorenzo non ha sofferto. Non si è accorto di nulla. Non ha sentito nulla.
Salgo in camera dei bambini. Trovo Camilla ancora a letto, sotto le coperte e con la
faccia sprofondata nel cuscino. Sembra che lei si accorga di me, e dice: "... non sto
ancora bene... forse sono ammalata..."
Senza dire niente mi avvicino alla sponda del letto, punto la pistola alla sua tempia e
faccio fuoco.
"Buongiorno Marco. Cosa vuoi?" Francesca è sulla soglia
della porta, in vestaglia. È farmacista, lei, ed era la moglie di un mio amico, anche lui
medico. Un radiologo. Ha tre figli maschi lei, che per un po' di giorni al mese vanno a
vivere dal padre.
"Ti devo parlare," le dico. E abbasso gli occhi. Sento che lei sospira, poi si
fa di lato per lasciarmi passare. Entro nell'appartamento, e dietro di me lei chiude la
porta. Mi giro a fronteggiarla. Ha i capelli lunghi e rosso tinto. Alta, ben fatta, il suo
corpo mi fece impazzire all'istante, non riuscivo a togliermela dalla testa, lo desideravo
ardentemente, come un qualsiasi ragazzino. Non potevo mai togliermela dalla testa. E poi
cominciai anche a volerle bene, cercai la sua stima oltre che il suo corpo. E il mio
castello di menzogne si fece più grande.
"Ti devo parlare... ho una cosa che devo dirti...c he ho... ho fatto... che..."
mi si spezza la voce. Lei si avvicina, con la faccia stanca.
"Ascolta, adesso basta, ne abbiamo già parlato abbastanza, e sinceramente..."
strabuzza gli occhi. Poi con lo sguardo scende verso la sua pancia e poi torna a
guardarmi. Ha un coltello piantato nello stomaco. Lo ritraggo lentamente. Mi trema il
mento, non riesco a guardarla più in faccia, e sono costretto a distogliere lo sguardo.
Lei cade pesantemente a terra, lamentandosi e gemendo. Mi abbasso e le do un'altra
pugnalata al petto, dritto al cuore. Altro sangue imbratta i miei pantaloni, altro sangue
sporca le mie mani.
"Mi dispiace..." dico, singhiozzando. Lascio il mio coltello piantato nel suo
petto, ed esco velocemente dall'appartamento, diretto verso la mia macchina. Ho ancora una
cosa da fare.
Piangendo e singhiozzando guido verso la casa dei miei genitori. Non
riesco più a fermarmi, ho dato il via a tutto questo, e ora non ho nulla da perdere. Ma
non sopporterei mai il pensiero che qualcuno a cui voglio bene lasci un ricordo come
questo. Non lo sopporto. Non voglio che succeda. Piuttosto devono morire, sicuramente
saranno più felici, e questa è forse la cosa migliore che io possa fare per loro.
Suono insistentemente il campanello di casa. Nessuna spiegazione, devo farlo a sangue
freddo, velocemente, non devo lasciargli il tempo di capire cosa stia succedendo. Non
devono soffrire. In mano ho la pistola automatica di poco fa.
Viene ad aprirmi mia madre. Quando mi vede rimane sorpresa, e ha il tempo di dire
"Marco... ciao, ma come ti sei ridotto? Cosa ti è successo?", poi le punto la
pistola alla fronte e faccio fuoco. Mia madre cade a terra. Velocemente vado in cucina, e
trovo mio padre ancora in pigiama intento a fare colazione. È un attimo, i nostri sguardi
si incrociano, mentre lui tiene sollevato a mezz'aria il cucchiaio. Punto la pistola e
faccio fuoco, due volte, per essere sicuro. Mio padre cade in avanti, con la faccia sul
tavolo e la scodella di latte che cade per terra.
Cado in ginocchio, e cerco di piangere di nuovo. Ma non ci riesco, ho già versato tutte
le mie lacrime. Il mondo mi è crollato addosso, tutto quello che avevo costruito nella
mia vita è distrutto. Non avrei mai voluto che andasse a finire così...
Ho appena chiamato la polizia. Ora sto aspettando, seduto sul letto
accanto al corpo di mia moglie. Vicino a lei ho disteso anche Lorenzo e Camilla. I volti
sono avvolti in un panno bianco. Non sopporto di vedere i loro visi morti. Solo ora mi
rendo pienamente conto di avere ucciso i miei cari. Non potrei mai vivere con questo
rimorso. Lo so, sono un egocentrico e non ho mai avuto il coraggio di affrontare le prove
della vita, i periodi negativi, i problemi. Per questo non ho il coraggio di andare
avanti. Nonostante tutto mi sento leggero. Finalmente tutti saranno contenti che io me ne
vado.
"Vi ho sempre voluto bene... vi ho sempre amati..." punto la pistola alla
tempia, e senza pensarci faccio fuoco.