Marciapiedi
lucidi di pioggia, illuminati dalla luce giallastra di qualche raro lampione. Corro
affannata, il rumore cadenzato dei miei passi rimbomba sul selciato, il fiato si condensa
in nuvole più solide della nebbia. Una manciata di secondi all'inizio del turno, non devo
arrivare in ritardo anche oggi, non posso perdere anche questo lavoro. Attraverso la sala
di corsa, raggiungo il mio posto, l'unico ancora vuoto; il supervisore mi fissa con
sguardo glaciale.
Nella postazione accanto Laura, impeccabile come sempre, ritocca veloce e precisa la
sfumatura dell'ombretto. Mi saluta senza guardarmi, ripone lo specchietto nella borsa e si
concentra sulle unghie, perfettamente laccate.
I monitor si accendono, si illumina la sequenza delle telefonate in attesa.
"Buongiorno, sono Laura. In cosa posso esserle utile?" La prima a rispondere,
come sempre. Respiro a fondo e apro il microfono. Una leggera scossa mi fa scrocchiare la
falangi.
Controllo il monitor, sembra tutto regolare ma c'è qualcosa che non mi convince.
Un urlo agghiacciante infrange la barriera delle cuffie. Laura è pietrificata in una
maschera di incredulità, orrore e sofferenza, lo sguardo fisso sulla scrivania rossa di
sangue. La mano sinistra è imprigionata nella tastiera, il palmo scorticato, due dita
mozzate; la mano destra ormai senza unghie cerca di proteggere il viso. Il tentativo di
Laura è disperato e inutile; il monitor esplode, schegge impazzite si conficcano negli
occhi, nelle braccia, nei polmoni. Una lama di vetro recide la carotide, schizzi di sangue
mi colpiscono mentre l'addetto alla sicurezza mi trascina verso l'uscita.
Il supervisore parla concitato al cellulare: "E' già il terzo caso questo mese.
Dobbiamo trovare un fornitore più affidabile, dobbiamo avere garanzie sui componenti
assemblati. Se continuiamo a usare terminali clonati, non riusciremo mai a liberarci di
questi dannatissimi computer mannari."