Oggi c'è
umidità. Piove, e tutto il paesaggio circostante è tinto di grigio per via della foschia
e della nebbiolina che aleggia sulla strada. I cantieri sono chiusi, nessuno lavora
all'aperto quando piove.
E io sono qui alla fermata dell'autobus, senza un riparo, senza un ombrello. Il mio zaino
è già fradicio, e scommetto che tutti i libri sono bagnati, con gli angoli rovinati.
Tiro su col naso. Oltre a piovere, fa anche freddo, e il cielo plumbeo non tira certamente
su il morale.
Finalmente arriva l'autobus che mi porterà a casa. Appena si ferma mi fiondo dentro,
all'asciutto, tenendo in mano l'abbonamento. L'autista non si preoccupa di chiedermelo.
Mi guardo in giro, alla ricerca di un posto libero vicino a qualcuno che conosco. Trovo
Dario tutto solo, seduto nei posti da quattro. Mi affretto a sedermi vicino a lui. Oggi ha
una brutta cera, e la cosa non tira su il morale.
"Ciao, come va?" gli chiedo, stancamente, cercando di imitare il suo stato
d'animo.
Lui fa spallucce, poi dice: "Niente di nuovo, un giorno uguale agli altri..."
"Come al solito."
Guardo fuori dal finestrino, poi gli dico, senza guardarlo: "Domani, se non sbaglio,
esci alle due, perciò non ci vediamo."
Lui sbadiglia.
"Sonno?" gli chiedo.
"Sì, ma non fa niente. Tanto non dormirò più, ora mi faccio esplodere."
"Dav..." ma non riesco a finire la frase. Dario apre il giubbotto, rivelando una
fila di candelotti di dinamite, e preme un pulsante.
L'ultimo fotogramma che il mio cervello percepisce è una luce al centro del corpo di
Dario, e i suoi due pezzi che si separano.