Mio figlio
ha il cancro.
Aveva solo tre anni quando notammo quella pustolina scura tra locchio e il naso; ora
che ne ha undici la sua faccia è interamente ricoperta da un ribollìo di carne caotica
rosso violacea che pende in avanti come un grappolo di prugne marce. Spesso sanguina tra
le pieghe.
Apro la porta della sua cameretta delicatamente, per non svegliarlo. Andrea dorme beato.
Gli antidolorifici aiutano.
I dottori hanno emesso un verdetto unanime: Andrea potrebbe sopravvivere anche fino a
venticinque, forse trentanni. Ma il cancro è di un tipo non curabile, lento ed
inesorabile ha già partorito le sue metastasi e devastato i tessuti sui quali è
cresciuto, deformando le ossa, mangiandosi gli occhi, il naso e la bocca. Andrea si nutre
attraverso ciò che ne rimane: un tunnel in quel turgore osceno.
La sua immagine tremola mentre i miei occhi si bagnano.
E un mostro oggi e sarebbe un mostro anche domani se il cancro guarisse.
Nella penombra silenziosa della stanza laria che entra dalla finestra aperta porta
il profumo del fieno fresco e dei fiori; odori che Andrea non potrà più sentire, colori
che non vedrà più.
Mi chino su di lui e gli sfioro la tempia con un bacio.
La gente penserà che il mostro sono io, che sono pazzo; farà grandi discorsi sul diritto
alla vita; ma io non so più cosa pensare mentre appoggio la bocca del mio fucile da
caccia sulla sua tempia.
Forse sono pazzo di dolore. Forse solo nella mia posizione si potrebbero comprendere
veramente le mie ragioni.
Premo il grilletto.
Un urlo mi esplode nel cuore.
Giro il fucile e gli mordo la bocca fumante.
Spingo nuovamente il grilletto.