Era soltanto un
soldatino di stagno.
Non una marionetta, come quelle che prendono vita dietro ai palcoscenici in
miniatura di qualche teatrino di paese.
Non era una bambola, di quelle che si cambiano vestito ogni giorno, secondo
l’umore delle loro padroncine.
Non era nemmeno famoso, come Pinocchio o Winnie the Pooh.
Era un soldatino alto nemmeno dieci centimetri, e rappresentava una guerra
che quasi tutti avevano dimenticato. Imbracciava un fucile fasullo, adornato
da una baionetta acuminata.
Portava il colbacco e una divisa rossa con bottoni dorati. Aveva i piedi
uniti e a stento riusciva a mantenersi ritto, tanto da aver la necessità di
un supporto sul quale poggiare. Una parete, un bicchiere, un libro.
Il suo padrone aveva scelto la mensola sopra il camino.
Il soldatino di stagno rimaneva ad aspettare per giorni,
mesi, addirittura anni. Il suo padrone invecchiava, si ingobbiva, impazziva.
Erano lontani i giorni nei quali il padrone passava intere giornate con il
suo soldatino.
La persona che gli faceva visita, di tanto in tanto, era una donna minuta
che indossava sempre un grembiule e impugnava uno spolverino. La donna, che
veniva sempre di mattina, afferrava frettolosamente il soldatino per poi
riposizionarlo sulla mensola alla bene e meglio. Talvolta lo appoggiava così
in bilico che una minima oscillazione lo avrebbe facilmente fatto
capitombolare sul pavimento. Per fortuna il padrone prestava attenzione al
soldatino nonostante la vecchiaia e il bastone che lo sorreggeva, e non
passava giornata che non lo raddrizzasse, la baionetta rivolta verso l’alto
e i piedi uniti in segno di obbedienza.
Lui era un soldatino di stagno, e ne andava fiero.
Trascorsero altri anni. I cuccioli del padrone uscirono
dalle culle e iniziarono a camminare.
Erano belli, adorati, vivaci. Tutti avevo occhi che per loro. Anche il
padrone li amava, nonostante non riuscisse più ad alzarsi dalla sua sedia a
dondolo.
Il soldatino però non era triste, in fondo se il padrone era felice per i
suoi cuccioli, anche lui lo era.
Un giorno piovoso, il padrone accolse i cuccioli sulle
ginocchia, aprì un libro di Andersen e raccontò loro una favola. La storia
narrava di un soldatino di stagno, tale e quale al suo giocattolo preferito
quando era bambino. Mentre raccontava le vicissitudini del soldatino e della
ballerina, il padrone lanciava occhiate malinconiche verso la mensola del
camino rammentando la sua infanzia triste e povera.
Solo il suo soldatino gli aveva regalato qualche sorriso.
Quando la storia arrivò alla fine, una lacrima inumidì la guancia del
padrone, che chiuse il libro con un botto e si raccomandò ai nipoti:
“Mi raccomando, rispettate qualsiasi persona, ma anche ogni animale e cosa.
Tutti hanno un’anima, chi più evidente chi più nascosta. Non fate come il
bambino della favola, non gettate nessun soldatino di stagno nel fuoco.”
Il soldatino si commosse a quelle parole. Certo, una commozione interiore,
non evidente.
C’era un cuore in quel corpicino metallico.
I cuccioli divennero ometti, e gli ometti scoprivano la
casa. Non era consentito loro di avvicinarsi al camino, soprattutto se
questi ospitava un caldo fuoco invernale. Ma si sa, i divieti sono
all’origine di tutte le disobbedienze.
Era una mattina e fuori c’era la neve e da parecchi inverni la donna minuta
non faceva più visita al soldatino. Il padrone era anch’esso andato via da
tempo, la sedia a dondolo era stata gettata nel fuoco. Una mano paffuta e
innocente avvolse il corpo di stagno del soldatino. Lo capovolse, lo scosse,
lo riposò sulla mensola.
“Gettiamolo nel fuoco”
“No, dai, era il gioco preferito del nonno”.
“E che me ne importa”.
Un’altra mano, più decisa. Un volto. Due occhi che osservavano maligni il
viso minuscolo e tondo del soldatino. Il fuoco che scoppiettava, ansioso di
ricevere stagno da liquefare.
Un cuore che voleva sopravvivere.
Il braccio che reggeva un fucile fasullo che si piegava. Che mirava.
Una baionetta, solenne e scintillante, che perforava il bulbo oculare di un
bambino.
Il fuoco si spense presto, quella sera. Nessuno aveva
avuto la compiacenza di alimentarlo con altri ciocchi. C’erano ancora
goccioline di sangue sul pavimento.
E tra la cenere del fuoco, se si osservava bene, c’era un volto, in parte
disciolto.
Un fucile fasullo.
E un cuore.