La
confessione resa dal Bellini, m'indignò; ancora una notizia di violenza familiare, in una
pagina di cronaca provinciale. Nessuno non si era accorto di niente. Addirittura il
parroco, alle domande di un giornalista, aveva detto: "Il Bellini... Oh mio Dio, è
un buon padre, un onesto lavoratore".
Il corpo di Giulia riversava a terra. L'aria putrida di morte, era pervasa da un nugolo
d'insetti. Nei giorni successivi al suo decesso, gli animali avevano tirato via a
brandelli la tenera carne che ora pendeva dalle pareti delle ossa. La stagione era tarda
per le mosche, eppure quella mattina, erano tutte lì, come se avessero concordato un
appuntamento. Si rotolavano, si dimenavano su quel corpo logoro di ferite. Sentivo le loro
esili voci, mentre consumavano nell'irrequietezza il lauto pasto. Tutto era immobile e
quieto, un cattivo odore filtrava le mie narici, nemmeno un alito di vento a mitigare
l'olezzo.
Il rigurgito della birra, bevuta la sera prima, mi saliva alla gola. Che
sensazione rivoltante. Mi sentivo il relitto di un galleggiante naufragato, ma riuscii lo
stesso a scattare le foto, e ad avvicinarmi alla carcassa umana senza vomitare.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il Bellini aveva agito sotto l'estatica
ebrietà di sostanze stupefacenti. Con natura malvagia, si era lanciato sulla piccola
Giulia, privandola dei suoi vestiti, strappandole l'ultimo respiro, fino a separarsene in
una discarica abusiva.
Per mesi ricorsi ad ansiolitici, per allontanarmi dal pensiero l'immagine di quella
bambina, che si dimenava in cerca d'aiuto e assopire una voce disperata che non proveniva
da bocca vivente. Giulia, mandava gemiti strazianti, pianti convulsi, urla lancinanti.
Bellini morì in carcere, qualche anno dopo la sua condanna. Dal quel giorno i miei sonni,
non furono più tormentati dalla presenza di Giulia. E' come se, con la scomparsa del
padre, avesse ritrovato la sua dimensione.