Questa storia del licantropo di Villa Borghese stava diventando una vera e propria maledizione, proprio come aveva previsto il commissario Ricci. Divise in libera circolazione, costanti controlli dei civili, e posti di blocco al calar della sera erano stati organizzati ai margini del muro torto. In conferenza stampa il Questore spiegò che non c’era da preoccuparsi e che la pubblica sicurezza manteneva un saldo controllo della situazione, chiese tuttavia l’evitamento delle zone circostanti il grande giardino al giungere del crepuscolo. Durante il convegno Ricci era rimasto inflessibile. Controllo di qua e controllo là, un vocabolo che odiava profondamente poiché, in quel caso, perdeva di valore.
La vicenda del Licantropo si era abbattuta su Roma con tutta la violenza di un ordigno bellico. Agghiacciante e triste, in una città sospesa in un’angoscia insonorizzata. Il primo avvistamento fu a novembre 1950, notte di plenilunio: Armando Prosperi De Ortenzi, notaio del Salario, procedeva su via Mercadante alla guida di una 508 balilla. Giurò di aver visto un uomo dalle fattezze animalesche bere al capezzale di un nasone e di esser stato inseguito. Avvistamenti simili furono in seguito segnalati da viandanti e vagabondi del quartiere Pinciano, ma il vero fatto di sangue accadde a gennaio: Emilia Bonfiglio Cevoni, maitresse di mezz’età, fu trovata assassinata alle soglie del giardino del lago. Seguirono altre due aggressioni a giovani passanti e il tentato omicidio di un vigilante, che descriveva il suo aggressore come dotato di forza erculea ed espressioni abominevoli. Testate giornalistiche locali ed altre più note come il Messaggero avevano cominciato a parlare di “Mostro” e nella capitale cominciò a regnare il silenzio e la paura a bighellonare presso il grande parco, trasformatosi in una landa desolata persino nelle ore diurne.
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Il commissario Ricci sognava di beccare quel maledetto criminale, uomo o bestia che fosse, ma per quanto si sforzasse non riusciva proprio a dormire se non un paio d’ore a notte. Le giornate le trascorreva tra una riunione investigativa e l’altra, attendendo il prossimo plenilunio. Aveva quarantaquattro anni, uomo inquieto, accanito fumatore di nazionali con trascorsi da ispettore nella grande Milano. Il caso gli era stato affidato da Nicolini, l’impassibile Pubblico Ministero. Una notte decise di acquattarsi nelle campagne intorno all’arco romano, dove erano avvenuti gli ultimi avvistamenti del Mostro. Aspettava e fumava in solitudine all’interno della vecchia Fiat, con l’arma d’ordinanza sull’abitacolo pronta ad essere impugnata. Sperava di poterlo pizzicare, quel maledetto assassino. Qualche giorno prima era stato beccato un sospettato, Aureliano Masconi, e subito condotto in custodia nelle carceri di Regina Coeli. La soffiata era stata fatta da un giornalaio di Via Ruffo, il quale asserì di aver visto più volte il Masconi aggirarsi di notte presso il parco capitolino con bizzarri comportamenti, come strapparsi i vestiti o graffiare i muri. A Ricci c’erano volute due settimane per escludere il coinvolgimento di Masconi. Nient’altro che un povero disgraziato. Paranoico asociale con disturbi della personalità, come si evinse poi dalla perizia psichiatrica. Il commissario respirò di sollievo all’ennesima aggressione del licantropo. Sembrò strano, ma sperava in cuor suo che il vero mostro fosse un altro. Una coppietta d’amanti fu aggredita a marzo non molto lontano dal Museo di Zoologia. Si trovavano a bordo di una vecchia autovettura quando il licantropo li raggiunse tentando di spingerli oltre il selciato. La coppia parlò di un uomo dall’aspetto ributtante, con denti acuminati e il volto ricoperto di peli, messo in fuga da un poliziotto che esplose qualche colpo d’arma fuoco senza riuscire a centrarlo. Ricci dormiva adesso con ancora in mano la sua sigaretta. Del licantropo nessuna traccia. La marmitta della vecchia Fiat ancora fumante e intorno all’Arco Romano una nebbia spettrale. Fu un rumore metallico a svegliarlo con un sussulto. Poi altri due o tre in rapida successione. La Fiat ondeggiò come scossa dall’alta marea, talmente forte che la pistola scivolò oltre l’abitacolo. La seguente mazzata lo inchiodò al sedile senza nemmeno dargli il tempo di formulare l’ultimo pensiero. Qualcuno da qualche parte emise un ringhio rabbioso. Chi era? Da dove veniva? Ricci notò un abominio alto e robusto davanti al parabrezza impolverato. Un rivolo di bava lungo il mento peloso, denti acuminati e occhi iniettati di sangue. Cercò a tentoni la pistola. Sei mio! Pensò. Quando il mostro infranse il parabrezza Ricci non arrivò all’arma per una questione di pochi centimetri. Lo vide piombargli addosso ed afferrargli con brutalità la mano. Il commissario chiuse gli occhi e, Dio quanto faceva male quella maledetta morsa! Si drizzò sul sedile, svegliandosi di colpo ed emettendo un gemito profondo. Il sudore lungo la fronte e un tremolio incessante alle gambe. Diavolo! Fece per asciugarsi il sudore notando come la sigaretta gli aveva bruciato la mano. Nell’abitacolo la pistola, ancora in attesa di essere impugnata. Il vecchio zenith da polso a carica manuale segnava le quattro e mezza. Adesso, con la testa affondata tra le braccia, il commissario respirò normalmente, indignato per un nuovo fallimento. Incubi maledetti! Fossero almeno reali.
Non ci volle molto tempo prima che gli inquirenti capissero che le aggressioni erano cessate. Passarono giorni, poi settimane ed infine mesi. Il caso restava aperto, ma la gente aveva ricominciato a passeggiare per le verdi vie del grande giardino romano. Ogni dieci-quindici giorni il commissario si concedeva delle lunghe passeggiate presso i luoghi delle aggressioni. Quando decisero di chiudere il caso, Ricci, ancora risentito per non aver acciuffato il Mostro, tentennava: Se solo fossimo stati più attenti! Con la stessa dedizione maniacale che aveva riservato ai suoi casi, il commissario si controllò il nodo della cravatta per poi dirigersi alla grande scalinata che conduceva al suo ufficio. Da dove affiorava questo incomparabile senso di sconfitta? Prese poi il taccuino con gli appunti costruiti intorno alla storia del Licantropo, lo strappò con forza per poi gettarlo nell’immondizia. Si dedicò quasi tutto il giorno a compilare dei rapporti riguardanti una serie di furti ed una rapina presso un ufficio postale. Poi restò tutto la sera a guardare dalla finestra, con le nazionali strette tra le dita e un bicchiere d’amaro sulla scrivania. Non c’era per la verità niente che potesse fare, di questo fu consapevole. Assaporò con delicatezza il liquore, e inspirò nuovamente il fumo di sigaretta bruciacchiandosi la gola. E lì rimase a guardare, mentre l’ombra sulla capitale continuava ad allungarsi e a prendere la forma di un assassino a piede libero e di un male incompiuto, quello del Mostro di Roma.
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